Archivi categoria: Nostri comunicati

L’anomalia della guerra in Messico

I dati della fabbrica del terrore

Il 5 marzo il collettivo “Guerreros Buscadores de Jalisco” scopre qualcosa che innalza il livello della crudeltà del potere in Messico: un campo di sterminio del Cartel Jalisco Nueva Generación, uno dei cartelli più feroci del Paese. In un ranch di Teuchitlán, nella campagna a un’ora dalla metropoli di Guadalajara (e a mezz’ora da una caserma militare), dietro un portone come altri milioni in Messico, vengono scovati – da un collettivo di familiari di “desaparecidos” e non dalle autorità competenti, come nella maggioranza schiacciante dei casi – tre forni crematori con ammucchiati frammenti umani e circa 400 paia di scarpe, centinaia di altri oggetti personali come braccialetti, orecchini, cappellini, zaini, quaderni con lunghissime liste di nomi, che proiettano la dimensione dell’orrore su centinaia, forse migliaia, di persone uccise con rigore scientifico in questo campo di sterminio contemporaneo. La vista della montagna di scarpe delle persone scomparse è un pugno al cuore per tutti coloro che, per associazione fotografica, volano con la mente ai peggiori massacri realizzati dalle dittature nazi-fasciste.

Ma Jalisco conta 186 siti di sepoltura clandestina processati dalle autorità, sebbene il ranch Izaguirre non figuri in questa mappa. Tlajomulco de Zúñiga è il comune con il maggior numero di fosse clandestine, per un totale di 75. Guadalajara la ricca, bella, ripulita e turistica capitale dello Stato è costellata di storie di desaparecidos e violenza, alcuni monumenti sono stati deturpati e trasformati in memoria viva con centinaia di foto e striscioni con i volti di persone sparite. Una realtà agghiacciante che va avanti da anni.

Sono più di quindici anni infatti che, come collettivo, ci siamo uniti a quella parte della società civile organizzata messicana che denuncia questa guerra negata, sporca, manipolata o romanticizzata nelle serie televise dedicate ai grandi capi del Narco. Una guerra del tutto capitalista, volta ad accumulare quantità assurde di denaro trafficando merci e corpi. Corpi picchiati, violentati, sfruttati fino all’ultima goccia, torturati e poi fatti a pezzi, sciolti nell’acido, bruciati, evaporati e dispersi nel nulla dell’oblio. Sono giovani uomini attratti da offerte di lavoro ingannevoli, bambini spariti in un angolo qualsiasi di una città, ragazzi reclutati con l’inganno. Sono moltissime donne: bambine, giovani, adulte, intrappolate in circuiti di tratta, abusi e torture inimmaginabili. E’ la fabbrica del terrore, la necro-produttività capitalista. Parliamo di 123.808 persone “desaparecidas”, dati del Registro Nacional de Personas Desaparecidas y No localizadas (RNPDN) aggiornati al 13 marzo 2025. Numeri che, addirittura, superano di gran lunga le cifre già spaventose dello sterminio e della sparizione forzata realizzati durante le dittature in Cile e Argentina. Ma in Messico la maggioranza delle vittime non è militante política, è gente comune e questo riduce di molto la risonanza di questo terrificante crimine, come analizzeremo più avanti. Più di 50.000 persone sono scomparse negli ultimi 6 anni, sotto il governo di centro-sinistra della pomposamente sedicente “4^ Trasformazione”, indicando matematicamente le responsabilità istituzionali di questa drammatica piaga sociale. A questi dati sommiamo gli omicidi realizzati nel paese dall’inizio della cosiddetta guerra al narco, ovvero da dicembre 2006: 532.609, dato aggiornato al 29 gennaio di quest’anno, secondo fonti ufficiali. Più di mezzo milione di vite stroncate, di cui almeno 250.000 durante gli ultimi sei anni, con i governi di centro-sinistra.

Sopravvivere alla “guerra di frammentazione territoriale”

Com’è possibile che tutto ciò passi in (quasi) completo silenzio?

L’elemento fondamentale dell’anomalia della guerra in Messico non risiede solo nell’alto indice di normalizzazione e negazione della stessa, di cui parleremo più avanti, ma soprattutto nella sua comprensione sociale, perché relegata ai margini della politica e delle definizioni classiche di guerra. “Ancora non piovono le bombe dal cielo”, ci diciamo a volte ironicamente, “non stiamo messi male” come in Palestina, in Siria, in Kurdistan, Sudan, in Ucrania. Eppure il numero dei morti è lo stesso o, in certi casi, superiore.
Questa infatti non è una guerra simmetrica, fra eserciti schierati o un’invasione dichiarata da una forza armata nemica; e neanche la tipica guerra contemporanea asimmetrica, che si combatte un po’ ovunque, con forze speciali dello Stato impegnate contro cellule del “nemico interno”. Il fronte messicano è caratterizzato invece da una moltiplicazione indiscriminata di attori armati e da un altissima intensità di fuoco, che frammentano il campo di battaglia in micro-conflitti molto violenti, sparsi e poco visibili che elevano brutalmente il tasso di mortalità fra la popolazione civile mentre l’attività economica, politica e sociale grosso modo va avanti, con black-out e intermittenze nelle gestione della vita pubblica locale. Definiamo quindi questa anomalia bellica come “guerra di frammentazione territoriale”. Del resto le aree più assiduamente colpite dalle offensive e contro-offensive dei vari gruppi armati (illegali o istituzionali), dai rastrellamenti, dalle sparizioni, dai reclutamenti forzati, sono i territori rurali o le periferie semi-rurali, come per esempio Teuchitlan, dove è “apparso” il centro di stermino e addestramento forzato nel ranch Izaguirre. In mezzo alle lande industriali, nei territori di frontiera, nel deserto, sulla costa, sulle montagne la gestione delle rotte, dei campi di coltivazione, del traffico di esseri umani è da decenni in mano a differenti gruppi di potere che si scannano su popolazioni di periferia, spesso indigeni e contadini, che non fanno notizia e, a volte, neanche fanno numero nelle statistiche. Quando la guerra fra i vari attori armati arriva nelle città si rende visibile, “registrabile”, fa scalpore ma spesso l’indignazione evapora nella paura per le rappresaglie e quando la violenza scema localmente in una geografia per intensificarsi in un altra.

Con lo sgretolamento dei grandi cartelli, più o meno stabili fino alla fine degli anni 90, e l’intromissione militare attiva dello Stato messicano come socio del Cartello di Sinaloa (2006) contro tutte le altre organizzazioni criminali, si è arrivati all’esplosiva creazione di centinaia di gruppi armati (240 secondo un’informativa della Secretaria de Gobernación) che a loro volta si diramano in cellule e sotto-gruppi locali, che gestiscono fisicamente in quartieri e villaggi la gestione delle attività illecite come il racket, la prostituzione, i sequestri, la fabbricazione e lo smistamento di armi e droga. La moltiplicazione degli attori armati ha aumentato considerabilemente la frammentazione del territorio, generando una balcanizzazione violenta del Paese, attraversato ampie aree “off limits” o con circolazione ristretta per coprifuoco. Queste numerose strutture/imprese criminali sono affiancate nel lavoro logistico e di controllo del flusso di merci/persone da tutte le forze armate e di sicurezza dello Stato, definite “corrotte” ma in realtà strutturalmente legate all’economia illegale, coinvolte a differenti livelli e divisi in differenti gruppi anche rivali e, quindi, anche in conflitto tra loro. Basta citare che nell’ultima “pulizia” ordinata quest’anno dall’attuale governatore del Chiapas Eduardo Ramirez, nell’affanno di recuperare un’immagine pubblica di decenza e con la necessità di riordinare il flusso di cocaina e migranti nella zona strategica della frontiera sud seguendo interessi di altri gruppi di potere, sono stati arrestati per mafia 270 poliziotti (e almeno tre sindaci) in cinque città differenti della regione, dimostrando implicitamente il livello di cooperazione fatto sistema tra Stato e crimine organizzato. Stato e Crimine che però non bisogna immaginare come due blocchi monolitici contrapposti, ma piuttosto dobbiamo abituarci a vedere e comprendere il panorama messicano come un grandissimo mercato, dove numerose agenzie, punti vendita e succursali, gruppi di pressione, giudici, polítici e burocrati insieme a molti attori armati, in divisa o meno, partecipano, si alleano e lottano a ritmi vertiginosi per assicurarsi una ghiotta percentuale nel controllo delle risorse del Paese (e, solo in parte, del fiume di cocaina che lo attraversa, su richiesta degli Stati Uniti d’America).

L’economia criminale come modo di produzione capitalista

La diffusione dell’economia criminale e della sua organizzazione è una ristrutturazione capitalista del dominio e saccheggio dei territori, un forma di accumulazione che in Messico si mostra con questa specificità che definiamo “guerra di frammentazione territoriale”. In America Latina lo Stato ha costantemente contribuito all’accumulazione (originaria e successiva) di Capitale attraverso le forze armate, con l’aggressione diretta contro chi impediva il saccheggio, spesso i popoli indigeni, gli operai e i contadini. Le classi subalterne nei secoli hanno sviluppato numerose e svariate forme di resistenza, anche armate, aprendo fino a pochi decenni fa un periodo feroce, ma anche formidabile, di lotta guerrigliera contro il potere statale, l’oligarchia e le grandi imprese. In Messico sono numerosissimi i casi di organizzazione della lotta armata, eredi dell’Indipendenza prima e della Rivoluzione poi, entrambe iniziate e portate a termine soprattutto dai contadini, dagli indigeni e successivamente dagli operai. Dopo l’insurrezione zapatista del 1994 e l’ampio consenso globale ottenuto da essa, per il governo messicano reprimere la resistenza popolare con le forze armate ha avuto, e continua ad avere, un costo politico molto alto (ricordiamo per esempio il caso di Ayotzinapa), ragion per cui l’uso delle forze dei sicari come outsorcing della repressione è diventato negli anni un vero e proprio dispositivo per raggiungere dei territori strategici, spopolarli attraverso la politica del terrore implementata dai gruppi criminali, riordinarli secondo la logica economica specifica (impiantare una miniera, un consorzio turistico, un porto, una diga o semplicemente ri-organizzare la forza lavoro e le risorse a favore del gruppo “vincente”). Si è passati dall’uso storico e secolare di mercenari al soldo dello Stato alla creazione di numerose imprese criminali regionali e locali che, indipendenti ma socie dello Stato, gestiscono, controllano e terrorizzano la popolazione per profitto proprio e con finalità condivise con chi governano le istituzioni: l’arricchimento illimitato. La repressione quindi non è più solo contro i guerriglieri e gli attivisti, ma è una forma di governance – flessibile, elastica ma spietata – su tutta la popolazione e sui territori su cui questa vive, lavora e sogna.

Questo dispositivo infernale, oltre a perpetuare la necessità capitalista di cosificazione e valorizazzione di ogni elemento, di ogni territorio e di ogni essere umano, ricopre un ruolo strategico importante nella guerra ideologica: quello di spoliticizzare la lotta di classe, la resistenza contro il saccheggio di ogni spazio vivibile.

L’uso del crimine organizzato, comunemente detto “narco”, come braccio armato del capitalismo permette collocare le vittime nel terreno fangoso del dubbio: l’hanno ammazato perchè lottava o perché magari aveva qualche intrallazzo che non si sapeva? Chi è stato realmente? Non ha la stessa ripercussione nell’opinione pubblica un omicidio realizzato dalla polizia o dall’esercito in uno scontro politico (una manifestazione o in combattimento guerrigliero) che un omicidio, con gli stessi fini, realizzato da sicari legati a un gruppo criminale, durante la “normalità” della vita quotidiana. O a volte neanche la “dignità” terribile dell’omicidio ma la sparizione forzata nel nulla, dove la vittima è inghiottita nel buio da un carnefice invisibile. In questa maniera si perdono più facilmente i connotati di un delitto politico, si “normalizza” l’aggressione facendola scivolare nell’oceano anonimo dei “delitti comuni”, non degni d’attenzione. Allo stesso tempo un omicidio chiaramente politico – così drammaticamente ricorrente nella lunga storia della lotta di classe – scatena effetti e reazioni con responsabilità politiche dirette: “è stato lo Stato!” E la gestione dello Stato, per quanto feroce, può essere messa in discussione, diviene “naturalmente” l’obbiettivo della rabbia popolare, così come storicamente i movimenti sociali hanno denunciato e combattuto la violenza dell’Esercito e della polizia, come bracci armati del potere e in qualche modo “traditori”, come lo Stato, del patto sociale con il popolo, che li mantiene. Quando però la fonte della violenza è un gruppo di imprenditori feroci, senza divisa, senza regole d’ingaggio, senza un’etica e un patto sociale a cui sottostare: come ci si ribella? Contro chi e come si dirige la rabbia sociale? È difficile, nonostante alcune eroiche eccezioni, manifestare, organizzarsi e difendersi contro un nemico senza regole, penetrato nel tessuto sociale e camaleontico, come la mafia.

Domande scomode

Spesso in Italia, tra un’iniziativa di contro-informazione e l’altra, abbiamo ascoltato domande dubbiose: “Ma c’è davvero la guerra in Chiapas? Ma è così proprio in tutto in Messico?” aggiunto magari da un “E’ che io ci sono andato in vacanza e mi sembrava abbastanza tranquillo…”

C’è una tendenza diffusa a minimizzare la portata dell’orrore, della gestione metodica (da campo di sterminio, appunto), istituzionale, sociale e politica del “fenomeno narco”. Da un lato la superficialità dell’analisi del potere, riprodotta dai media mainstream, che al massimo sottolinea solo gli aspetti “folckoristici”, aneddotici e incluso “brillanti” (tipo il Chapo Guzman che apparve nella lista di milionari di Forbes) di molteplici “casi isolati”; e questa è quella che più diffusamente giunge in Europa, una scelta narrativa del potere per distrarre l’attenzione sulle specificità sistemiche del “problema”. Dall’altro lato c’è la normalizzazione che la stessa società fa (che facciamo anche noi che ne denunciamo la barbarie) per sopravvivere: si esce di casa, si va al lavoro o al supermercato, d’un tratto degli spari e… si aspetta, in un riparo improvvisato, che finisca la sparatoria e si riprende poi il tran-tran. O arriva un messaggio della figlia del vicino “scomparsa”, lo si legge con un sospiro, si diffonde nelle chat e si torna alle occupazioni quotidiane, magari sussurrando una preghiera e sperando sommessamente che non tocchi mai a una figlia propria, a un parente, a un amico del cuore. In Messico apparentemente la vita scorre regolare, i bambini vanno a scuola, ogni tanto le chiudono per qualche sparatoria, ma i bambini sanno – come in caso di terremoto – che si devono accovacciare sotto i tavoli o sdraiarsi al suolo, appunto, perché la balacera è vissuta come un’altra catastrofe naturale qualsiasi, interiorizzata e affrontata come tale. Tra la banalizzazione dei media e l’assuefazione alla violenza come istinto di massa di sopravvivenza si getta la polvere (dei corpi carbonizzati) sotto il tappeto della normalità. E così, nonostante certi momenti di indignazione, ribellione e forte protesta popolare (come le mobilitazioni del 2011 del Movimento per la Giustizia con Dignità, quelle del 2014/2015 per i 43 di Ayotzinapa, la creazione di gruppi di “autodifesa” soprattutto nei territori indigeni), siamo giunti a mezzo milione di persone assassinate, oltre 120.000 desaparecidos e alla scoperta dei centri di sterminio in questa grande fossa comune chiamata Messico.

La gravità dei crimini riscontrabili nel ranch di Teuchitlán, perquisito dalle forze dell’ordine nel 2017 e poi nel settembre del 2024 che “non avevano notato la presenza di forni e altri dettagli”, mette a nudo nuovamente la rete di complicità fitte fra il crimine e lo Stato messicano. La gestione di un centro di addestramento ed eliminazione fisica dei corpi a questo livello può funzionare solo d’accordo con il silenzio – e possibilmente l’appoggio diretto – delle istituzioni politiche e di procurazione della giustizia. Un genocidio, un crimine di lesa umanità veniva perpetrato alle porte dalla seconda città più importante del Messico, dove la gente veniva adescata nelle stazioni dei pullman, portata lì, vessata fisicamente e sessualmente, istigata a uccidere e – chi sopravviveva all’inferno – obbligata a farsi sicario, trasformarsi in macchina di morte per la produzione e l’accumulazione di ricchezza del CJNG. Tutte le altre persone torturate atrocemente e poi bruciate, spazzate via come immondizia. Fumo.

Le domande che ne seguono sono terribili: quanti altri centri di sterminio simili stanno funzionando e sono tollerati in altri posti del Messico? Fino a quando volteremo lo sguardo altrove, permettendo alle imprese, ai governi e al loro braccio armato di disporre così atrocemente dei nostri corpi, del nostro futuro? Fino a quando accetteremo di vivere con la paura e il terrore nell’anima?

E per chi vive dall’altra parte dell’oceano: Fino a quando le serie sul narco e il turismo inconsapevole frivolizzeranno le nostre conversazioni sul Messico?

Fino a quando penseremo che quelle “due strisce” date il sabato sera non ci fanno complici del lato più feroce del capitalismo?

Fino a quando resteremo indifferenti?

Fino a quando ci assolveremo?

Nodo Solidale

#NarcoEsDespojo #NarcoEsCapitalismo #NarcoEsElEstado

Los retos de la solidaridad internacional en Chiapas – 30 años de BriCo

Compartimos la intervención del Nodo Solidario en ocasión del conversatorio “Retos de la Solidaridad Internacional en Chiapas” para el aniversario de 30 años de Brigadas Civiles de Observaciòn (BriCO).

Aqui el enlace de la grabación integral del conversatorio.

Los retos de la Solidaridad internacional en Chiapas – 30 años de BriCo

Traduzione in Italiano

Compañeros, compañeras, compañeres,

Estamos felices de poder hoy celebrar los 30 años de las Brigadas Civiles de Observación, un proyecto en que muches de nosotres hemos participado en esos años y que hemos estado acompañando de diferentes formas.

Para empezar, queremos felicitar a todes les compañeres que han estado trabajando duro para que hoy podamos estar aquí festejándolas.

Vamos a hablarles brevemente de nuestro colectivo y lo que para nosotres significa esto de la solidaridad internacional, que para muches de nosotres se ha convertido en el fulcro principal de
nuestra lucha.

El Nodo Solidale nació formalmente en mayo de 2007 y se autodenomina como un colectivo de militantes por la vida con un sueño revolucionario, sembrado en dos orillas del océano, una en
México y la otra en Italia. La idea principal es tejer redes entre las realidades rebeldes de ambas geografías.

Desde el inicio, el colectivo ha tenido esta característica de vivir y actuar políticamente en dos nodos locales: tener raíces en Italia, en los movimientos sociales y en las experiencias de autogestión desde abajo, y por otro lado, a través de un grupo de expatriados establecidos en México, algunos de los cuales llevan casi veinte años aquí.

La idea común y fundacional del colectivo es la voluntad de promover la autonomía y favorecer la autorganización popular a través de la práctica de la autogestión, es decir, construir apoyo mutuo, político y económico entre las organizaciones en lucha.

La contribución del Nodo al archipiélago global de las resistencias es, por lo tanto, la de tejer comunidades, a través de una militancia basada en vínculos de amistad política organizada. En la práctica organizativa del colectivo, tratamos de prolongar la amistad – terreno sólido de la confianza y la afinidad – en el campo político y hacer así que el acto de solidaridad sea un momento cómplice, convivencial pero organizado y, por lo tanto, reproducible. Tejer complicidad global entre las luchas, uniendo en el acto convivencial de la barricada, la cena popular, la manifestación, el campamento, el concierto, la brigada, el taller, un encuentro entre procesos que coinciden en la resistencia, tratando siempre de respetar los tiempos, los modos y los espacios decisionales de
cada une.

Han sido muchas las brigadas que en estos años hemos podido organizar, acompañar o en las que hemos participado. Para nosotres, las brigadas representan una herramienta, un puente para entrar en el mundo de nuestres compañeres, descubrir sus formas, maneras, estrategias y culturas que hacen rica y única su resistencia. Y desde allí, escuchamos, observamos y aprendemos. Diversos han sido los temas puestos en común a lo largo de los años, desde la  comunicaciónpopular hasta la construcción de hornos, desde la panadería comunitaria hasta la serigrafía, desde la autodefensa hasta el deporte, desde la autoformación política hasta la salud comunitaria.

En este caminar hemos intentado siempre mantener unas prácticas activamente anticoloniales, en un ejercicio activo de desmantelar el eurocentrismo, así como construir una postura horizontal, no
paternalista, y consciente de quiénes somos y de dónde venimos.

El Frayba siempre ha representado una referencia política y humana para nosotres, así como un acompañante en el caminar, un espacio seguro. Para muches de les que conformamos el colectivo, las Bricos han sido nuestra primera experiencia de acercamientos a las comunidades en resistencia. Para quienes llegan aquí como visitantes de corto y mediano plazo, las Bricos son una posibilidad construida desde abajo y desde la solidaridad para conocer un poco más, vivir en la piel, contribuir con un granito consciente de arena a la rebeldía y la resistencia, local y global. Representan una posibilidad de encontrar y conocer, desde abajo, a las comunidades indígenas, zapatistas y no zapatistas, que fortalecen su autonomía. Experimentar lo que es vivir con el otro, en un contexto diametralmente opuesto a nuestros contextos de origen, poniendo en práctica la solidaridad internacional en la defensa de los derechos humanos.

Con respecto a los retos y desafíos que existen en practicar la solidaridad activa en este momento en Chiapas, en colectivo hemos analizado que estamos en un contexto de reflujo de los
movimientos sociales en México y también en Europa, por lo cual muy poco las nuevas generaciones llegan a Chiapas en comparación a antes, por lo cual muchos espacios organizativos se han ido hacia adentro y hay menos espacios de articulación.

Sin duda, existe mayor dificultad en crear situaciones de intercambio debido al aumento del costo de la vida y al aumento de la violencia en muchos territorios de Chiapas.

El movimiento zapatista, principal referente para las luchas globales en Chiapas, ha estado desde hace años con una política de cierre de sus comunidades. Nosotros mismos hemos concluido nuestro proyecto de los hornos que era una manera para hacer circular la solidaridad. Así como nosotres, muches otres.

Estos cambios y nuevas condiciones han implicado tener que reinventar las formas y adaptarnos a un contexto diferente. Lo que hemos hecho aquí en Chiapas ha sido, por un lado, fortalecer
nuestro involucramiento en el territorio urbano y desde ahí seguir tejiendo redes de solidaridad. Por ejemplo con el GAP de Cuxtitali y promoviendo la hermandad con gimnasios populares en Italia,
generando una circulación de personas interesadas al deporte popular. También nos hemos concentrado en las redes de médicos solidario con el proyecto de la Casa de salud Comunitaria de
Cuxtitali.

Hemos activado y participado en comités de solidaridad con otras luchas y resistencias en otras partes del mundo (Kurdistán y Palestina).

Sobre todo, y es la razón principal por estar aquí el día de hoy, hemos seguido participando en la formación de los y las brigadistas del Frayba.

Porque las Bricos representan una posibilidad de ponerse en la alteridad desde la ternura de la complicidad global, desde la periferia de una capital del norte global hacia el mundo campesino de
Chiapas, ofreciendo la posibilidad de encontrarse y leerse en la misma lucha. Una fogata que une las barricadas de Roma y la resistencia pacífica de Las Abejas de Acteal. Una fogata que reúne
unos punkis de las periferias con el sonido de una marimba en resistencia. Una fogata que une las luchas, en sus diferencias de historia y geografía, pero desde el sabor del buen vivir,  reconociéndose en la misma resistencia a un sistema de opresión. Un aliento de esperanza.

GIUSTIZIA PER SAMIR FLORES SOBERANES! 6 ANNI DI IMPUNITÀ

Questo 20 febbraio si compiono 6 anni dal vile assassinio del nostro compagno Samir Flores Soberanes. Sei anni nella totale impunità di un governo che funge da mano armata per il grande capitale. Samir è stato ucciso da 4 colpi di pistola davanti a casa sua ad Amilcingo, nello stato messicano del Morelos, perché difendeva la terra dalla devastazione dei grandi progetti. I nomi di coloro che lo hanno assassinato non li conosciamo ancora, ma sappiamo bene a che interessi rispondevano.

Vi invitiamo questo 20 febbraio alle 12.00 di fronte all’ambasciata messicana a Roma (Via Lazzaro Spallanzani 16) per esigere, dopo sei anni, con la stessa forza, giustizia per Samir! Giustizia per chi difende la terra! Continua la lettura di GIUSTIZIA PER SAMIR FLORES SOBERANES! 6 ANNI DI IMPUNITÀ

Nieto 133- Identità rubate

Il collettivo Nodo Solidale:
A Cristina
A Flori
Alla grande famiglia che siete
Alla grande famiglia che siamo

Desaparecidos. Desaparecidas. Scomparsi.
Nell’Argentina della dittatura militare, tra il 1976 e il 1983, nel  cosiddetto Processo di Riorganizzazione Nazionale, 30.000 vite furono inghiottite dal buio. Studenti e studentesse, operai e operaie, sindacalisti, artisti, cineasti, teatranti, membri della Chiesa, maestri e maestre. Donne e uomini, perlopiù giovani, che agli occhi del potere erano, o potevano diventare, una minaccia al regime. Ribelli, insubordinati, dissidenti. Una generazione intera strappata via. Torturati con ferocia disumana. Corpi stuprati, massacrati, umiliati, annientati in maniera sistematica. Pochissimi sono sopravvissuti.

Donne incinte sequestrate nei centri di tortura, sottoposte alla stessa brutalità delle altre. I  figli, partoriti nell’orrore, venivano strappati dalle loro braccia, privati del loro nome, della loro storia, venduti o affidati a famiglie compiacenti, quasi sempre militari o collusi con il sistema criminale.

Le loro identità furono rubate e profanate. 30.000 uomini e donne, in quei sette anni, sono stati inghiottiti dall’acqua, dalla terra, dal fuoco. Scaraventati nell’oblio. I loro corpi spariti, ingurgitati dall’orrore fascista. Eppure le loro voci, i loro sogni, la loro lotta e le loro ragioni non sono mai stati davvero cancellati. Non sono riusciti  a “desaparecerlos”, a farli sparire del tutto. Mai. Las Madres, Las Abuelas y Los Hijos de Plaza de Mayo, insieme a molti altri, non hanno più smesso di combattere.
Hanno trasformato il dolore in resistenza, la memoria in uno strumento di giustizia, costruendo ponti tra passato e presente. Cercano, nominano, denunciano ancora. Gridano ancora. Perché dimenticare significa essere complici.

Chi non conosce questa storia, giovane o adulto, deve conoscerla. Chi l’ha dimenticata, se ne assuma la responsabilità. Non c’è giustizia senza memoria, non c’è futuro senza verità.

Come Nodo Solidale, piccolo collettivo con radici sia in Italia – terra d’origine di tanti migranti giunti in Argentina – sia in Messico – immensa fossa comune in cui all’oggi sono sprofondati nel nulla 115,000 desaparecid@s – sentiamo il dovere di contribuire a preservare e diffondere la memoria della dittatura argentina di quegli anni, degli orrori e le atrocità che ha provocato, così come di tutte le dittature e i fascismi, espliciti o mascherati, che hanno segnato la storia, ieri come oggi, in ogni angolo del mondo. La memoria non riguarda solo un passato lontano, ma é continua vigilanza contro ogni forma di oppressione, fascismo, violenza e negazione dei diritti umani, in qualsiasi contesto e in qualsiasi tempo. Perché solo attraverso la memoria, senza perdono per gli assassini né oblio per i loro complici, possiamo fare in modo che quel Nunca Más sia davvero definitivo.

Oggi vogliamo condividere la storia del NIETO 133, Daniel Santucho Navajas, figlio di Julio e Cristina, rubato alla madre, poi desaparecida, durante la sua prigionia. Dopo anni di lotte e speranze infrante, nel luglio del 2023, a questo nieto, a questo nipote – che ormai è un uomo – è stata restituita l’identità, e, con essa, una parte della vita che gli era stata sottratta. Il caso di Daniel è simbolo di tutte le storie di nietos e nietas rubati, ma anche di una speranza che non muore mai: che la verità e la giustizia possano prevalere, anche dopo decenni di silenzio e omertà. Questa restituzione di identità non è solo una vittoria personale, ma un atto di resistenza collettiva, che ci ricorda quanto sia fondamentale non arrendersi. Mancano ancora 300 nipoti delle Abuelas de Plaza de Mayo, strappati ai loro familiari dai militari, e potrebbero trovarsi ovunque, anche in Europa. La loro ricerca non è finita, la lotta, appunto, continua. Diffondi, condividi, e fai in modo che la memoria non svanisca.

Esistono numerosi testi, dossier, romanzi, film e altri contributi che raccontano la storia e le storie dei desaparecidos e delle desaparecidas durante la dittatura argentina. Questi racconti sono ancora lì, pronti a essere scoperti. È nostro dovere cercarli, ascoltarli e non dimenticare.

Qui i link ai materiali sulla storia del NIETO 133:

“Identidad robada” Breve documentario diretto da Rodrigo Vazquez-Salessi e Florencia Santucho sulla storia di Daniel. Prossimamente avrà anche i sottotitoli in italiano.
“I dubbi che Daniel Santucho Navajas aveva sulla sua identità sono finalmente venuti alla luce quando le Abuelas de Plaza de Mayo, che conservano le informazioni genetiche delle vittime della dittatura militare in Argentina, hanno trovato una corrispondenza di DNA per lui nel luglio del 2023. Riconnettendosi con la sua famiglia biologica, Daniel scopre la verità su ciò che gli è accaduto. Scopre di essere nato in un centro di detenzione e di essere stato adottato in segreto. Sua madre è ancora una delle migliaia di desaparecidos. Durante la sua ricerca della verità, si svela il programma sistematico di adozioni illegali e crimini commessi durante la dittatura militare dal 1976 al 1983”.
– In italiano il bellissimo Podcast di Claudia Gatti, Riccardo Cocozza e Florencia Santucho, NIETO 133 – Storia di una famiglia contro le dittature argentine.

“Questa è la saga di una famiglia militante che segna la storia dell’Argentina degli ultimi 70 anni, la famiglia Santucho, le dittature, la lotta armata, i desaparecidos, i mondiali del 76 e poi l’esilio, l’Italia e il Messico, e poi ancora la democrazia e i processi a metà, il PC e i centri sociali, e Genova, Maastricht e la Patagonia, fanno da sfondo a identità militanti che si muovono tra Italia e Argentina alla ricerca della verità e attanagliati da un dubbio. Dubbio che trova una risposta in un volto di 46 anni. È il 28 luglio 2023. Finalmente, una nuova identità militante, l’ultimo Santucho, emerge dal passato e si fa futuro. Questa è la storia di Daniel, Nieto 33.

Il link alla commovente conferenza stampa in cui la famiglia Santucho annuncia il ritrovamento di Daniel.
É importante chiamarlo nipote, anche se è figlio, fratello e padre perché come ricorda la presenza e le parole di  Estela Carlotto, rappresentante delle madri di Plaza de Mayo, lui è anche il nipote di Nelida Gomez Navaja. Nonna di Plaza de Mayo, Nelida è morta nel 2012 e non ha mai smesso di cercare suo nipote fino alla fine della sua vita.

————————-CASTELLANO————————————–

Para Cristina
Para Flori
A la gran familia que son
A la gran familia que somos

Desaparecidos. Desaparecidas.

En la Argentina de la dictadura militar, entre 1976 y 1983, durante el llamado Proceso de Reorganización Nacional, 30.000 vidas fueron tragadas por las tinieblas. Estudiantes, obreros y obreras, sindicalistas, artistas, miembros de la Iglesia, maestros y maestras. Mujeres y hombres, en su mayoría jóvenes, que a los ojos del poder eran, o podían llegar a ser, una amenaza para el régimen. Revolucionaries, rebeldes, insubordinados, disidentes. Toda una generación diezmada. Torturada con ferocidad inhumana. Cuerpos violados, masacrados, humillados, aniquilados sistemáticamente. Muy pocos sobrevivieron. Mujeres embarazadas apresadas en centros de tortura, sometidas a la misma brutalidad que las demás. Sus hijos, nacidos en el horror, fueron arrancados de sus brazos, privados de su nombre, de su historia, vendidos o entregados a familias complacientes, casi siempre militares o en connivencia con el sistema criminal.

Sus identidades fueron robadas y profanadas. 30.000 hombres y mujeres, en esos siete años, fueron tragados por el agua, la tierra, el fuego. Arrojados al olvido. Sus cuerpos desaparecieron, engullidos por el horror fascista. Sin embargo, sus voces, sus sueños, su lucha y sus razones nunca las pudieron borraron. No consiguieron «desaparecerlos». Nunca. Las Madres, Las Abuelas y Los Hijos de Plaza de Mayo, junto con muchos otros y otras, nunca han dejado de luchar.  Han transformado el dolor en resistencia, la memoria en instrumento de justicia, tejiendo puentes entre el pasado y el presente. Siguen buscando, siguen nombrando, siguen denunciando. Siguen gritando. Porque olvidar significa ser cómplice.

Los que no conocen esta historia, jóvenes o mayores, deben conocerla. Los que la han olvidado, que asuman su responsabilidad. No hay justicia sin memoria, no hay futuro sin verdad.

Como Nodo Solidale, un pequeño colectivo con raíces tanto en Italia – la tierra de origen de tantos migrantes que llegaron a Argentina – como en México – una inmensa fosa común en la que se cuentan 115,000 desaparecid@s – sentimos que es nuestro deber contribuir a preservar y difundir la memoria de la dictadura argentina de aquellos años, de los horrores y atrocidades que provocó, así como de todas las dictaduras y fascismos, explícitos o enmascarados, que han marcado la historia, ayer como hoy, en todos los rincones del mundo. La memoria no se refiere sólo al pasado lejano, sino que es una vigilancia continua contra todas las formas de opresión, fascismo, violencia y negación de los derechos humanos, en cualquier contexto y en cualquier momento. Porque sólo a través de la memoria, sin perdón para los asesinos ni olvido para sus cómplices, podremos conseguir que el Nunca Más sea realmente definitivo.

Hoy queremos compartir la historia de NIETO 133, Daniel Santucho Navajas, hijo de Julio y Cristina, robado a su madre, posteriormente desaparecida, durante su encarcelamiento. Tras años de lucha y esperanzas rotas, en julio de 2023, este nieto -que ahora es un hombre- recuperó su identidad y, con ella, una parte de la vida que le había sido arrebatada.

El caso de Daniel es simbólico de todas las historias de nietos y nietas robados, pero también de una esperanza que nunca muere: que la verdad y la justicia puedan prevalecer, incluso después de décadas de silencio y complicidad. Esta restitución de la identidad no es sólo una victoria personal, sino un acto de resistencia colectiva, que nos recuerda lo crucial que es no rendirse.

Todavía hay 300 nietos de las Abuelas de Plaza de Mayo desaparecidos, arrebatados a sus familias por los militares, y podrían estar en cualquier parte, incluso en Europa. Su búsqueda no ha terminado, la lucha, de hecho, continúa. Difunde, comparte y haz que la memoria no se desvanezca.

Existen numerosos textos, novelas, películas y otras aportaciones que relatan la historia y las historias de los desaparecidos y desaparecidas durante la dictadura argentina. Estas historias siguen ahí, listas para ser descubiertas. Es nuestro deber buscarlas, escucharlas y no olvidar.

Aquí siguen los enlaces a materiales sobre la historia del NIETO 133:

– “Identidad Robada” Breve documental dirigido por Rodrigo Vazquez-Salessi y Florencia Santucho sobre la historia de Daniel.
«Las dudas que Daniel Santucho Navajas tenía sobre su identidad finalmente salieron a la luz cuando las Abuelas de Plaza de Mayo, que almacenan la información genética de las víctimas de la dictadura militar en Argentina, encontraron una coincidencia de ADN para él en julio de 2023. Al reencontrarse con su familia biológica, Daniel descubre la verdad sobre lo que le ocurrió. Descubre que nació en un centro de detención y que fue adoptado en secreto. Su madre sigue siendo una de los miles de desaparecidos. Durante su búsqueda de la verdad, se revela el programa sistemático de adopciones ilegales y los crímenes cometidos durante la dictadura militar de 1976 a 1983».

https://www.instagram.com/reel/DCisRFKtCTI/?igsh=bHV0dDd2M2hmaDc2

-El enlace a la emotiva conferencia de prensa en la que la familia Santucho anunció el hallazgo de Daniel.
Es importante llamarlo nieto, aunque sea hijo, hermano y padre porque, como recuerda Estela Carlotto, representante de las Madres de Plaza de Mayo, también es nieto de Nélida Gómez Navaja. Abuela de Plaza de Mayo, Nélida murió en 2012 y nunca dejó de buscar a su nieto hasta el final de su vida.

En italiano, el hermoso Podcast de Claudia Gatti, Riccardo Cocozza y Florencia Santucho, NIETO 133 – Historia de una familia contra las dictaduras argentinas.

«Esta es la saga de una familia militante que marca la historia de Argentina en los últimos 70 años, la familia Santucho, las dictaduras, la lucha armada, los desaparecidos, el Mundial del 76 y luego el exilio, Italia y México, y luego otra vez la democracia y los juicios a medias, el PC y los centros sociales, y Génova, Maastricht y la Patagonia, forman el telar de fondo de identidades militantes que se mueven entre Italia y Argentina en busca de la verdad y atenazadas por una duda. Duda que encuentra respuesta en un rostro de 46 años. Es el 28 de julio de 2023. Finalmente, una nueva identidad militante, el último Santucho, emerge del pasado y se convierte en el futuro. Esta es la historia de Daniel, Nieto 133.»

 

Gli occhi di Renato

[Immagine di copertina: “Maternità ribelli e militanti: nella foto il Comitato Madri per Roma Città Aperta nella spiaggia di Focene, dove fu assassinato Renato Biagetti”]

Renato dov’è? 18 anni da quelle infami coltellate fasciste, dov’è Renato?

Nel buio globale dei tempi attuali, dove sembra che la luce sia solo quella nefasta e terrificante delle bombe in cielo e delle raffiche in terra, gli zapatisti e le zapatiste ci ricordano, dando l’esempio, di tenere sempre la fiammella della speranza accesa. Ci dicono di non farla morire, per non essere inghiottiti nell’oscurità più nera del capitalismo: la distruzione stessa della specie umana e del suo planeta. Dobbiamo sforzarci per mantenere viva la fiammella, prendersene cura, proteggerla e continuare a caminare collettivamente… Nei piccoli bagliori di questa minuscola luce tremula che siamo, rivediamo gli occhi di Renato e il suo sorriso immenso. Nell’indistruttibilità e irriducibilità delle piccole grandi lotte che anche Renato nutriva. Continua la lettura di Gli occhi di Renato

Le guerre del Capitale

Passano i mesi e, nonostante le mobilitazioni di massa in tutto il mondo, con milioni di persone che chiedono a gran voce un immediato cessate il fuoco, su Gaza continuano a piovere bombe. Venerdì scorso, più di 100 civili sono stati letteralmente fatti a pezzi mentre pregavano in una scuola nel quartiere di Al-Daraj. Un crimine in più tra i migliaia commessi dagli invasori dell’esercito israeliano, i quali stanno perpetrando sfacciatamente un infanticidio di massa e un genocidio davanti agli occhi di tutto il mondo. Là in alto, tra i potenti di tutti i paesi, non c’è nessuno che li fermi. Qui in basso continuiamo ad accumulare rabbia vedendo non solo lo sterminio di tanti fratelli e sorelle, ma anche come si riempiono le tasche dei fabbricanti di armi e dei loro soci, i politici di ogni bando.

Nel nord della Siria, a poche centinaia di chilometri dal massacro in corso in Palestina, lo Stato turco e le sue bande di mercenari hanno bombardato con obici i villaggi di Cat e Ewn Dadat, nel cantone di Manbij, nella notte di venerdì scorso. Allo stesso tempo, poco più a sud, circa 400 mercenari al soldo del regime siriano hanno attraversato il fiume Eufrate cercando di penetrare nel territorio dell’Amministrazione Autonoma del Nord-Est della Siria (AANES) e, di fronte alla resistenza delle Forze Democratiche Siriane (SDF), che sono riuscite a respingerli, hanno compiuto una rappresaglia bombardando i villaggi di Jadeed Bakara e al-Dahalah massacrando 13 civili, la maggior parte donne e bambini, tra cui un neonato di un anno e mezzo e un altro di 4 mesi. Qualè la colpa delle vittime? Vivere nel territorio autonomo e democratico dell’AANES, un laboratorio sociale nel pieno del Medio Oriente ispirato ai principi socialisti, ecologisti e femministi del movimento di liberazione del Kurdistan. Vale a dire, sia lo Stato turco, alleato degli Stati Uniti nella NATO, sia lo Stato siriano, alleato della Russia e dell’Iran, bombardano civili con il criminale desiderio di schiacciare uno dei più grandi esempi di autogestione popolare di questo secolo. Ed entrambi si servono delle feroci bande paramilitari islamiste, come ISIS e Al Nusra. Continua la lettura di Le guerre del Capitale

¡Guerras capitalistas!

VERSIONE IN ITALIANO

Pasan los meses y a pesar de las movilizaciones masivas en todo el mundo, con millones de personas clamando un alto al fuego inmediato, en Gaza siguen lloviendo bombas. Hace pocas horas más de 100 civiles fueron literalmente hechos pedazos, mientras rezaban en una escuela en el barrio de Al-Daraj. Sólo un crimen más entre los miles cometidos por los invasores del ejército israelí, los cuales están perpetrando descaradamente un infanticidio masivo y un genocidio ante los ojos de todo el mundo. Allá arriba, entre los mandones de todos los países, no hay quien los pare. Aquí abajo seguimos acumulando rabia viendo no sólo el exterminio de tantos hermanos y hermanas, sino también cómo se inflan los bolsillos de los fabricantes de armas y sus socios entre los políticos de todos los colores.

En el norte de Siria, a unos cientos de kilómetros de la masacre en curso en Palestina, el Estado turco y sus bandas bombardearon con obuses las aldeas de Cat y Ewn Dadat, en el cantón de Manbij, en la noche del viernes. Al mismo tiempo, un poco más al sur, alrededor de 400 mercenarios a sueldo del régimen sirio cruzaron el río Éufrates buscando penetrar el territorio de la Administración Autónoma del NorEste de Siria (AANES) y ante la resistencia de las Fuerzas Democráticas Sirias (SDF), quienes lograron rechazarlos, tomaron represalia bombardeando las aldeas de Jadeed Bakara y al-Dahalah masacrando a 13 civiles, la mayoría de ellos mujeres y niños, entre ellos un bebé de 1 año y medio y otro de 4 meses. ¿Su culpa? Vivir en el territorio autónomo y democrático de la AANES, un laboratorio social en pleno Medio Oriente inspirado en los principios socialistas, ecologistas y feministas del movimiento de liberación de Kurdistán. Es decir, tanto el Estado Turco, aliado de Estados Unidos en la OTAN, como el Estado Sirio, aliado de Rusia e Irán, bombardean civiles con el mortífero anhelo de aplastar uno de los más grandes ejemplos de autogestión popular de este siglo. Y ambos se sirven de las feroces bandas paramilitares islamistas, tal como ISIS y Al Nusra.

Continua la lettura di ¡Guerras capitalistas!

BASTA DE BOMBARDEOS EN MEDIO ORIENTE. LIBERTAD PARA LOS PUEBLOS DE PALESTINA Y KURDISTAN.

En Gaza, Palestina, es el infierno.

Si antes del 7 de octubre de 2023, día en que el ejército sionista de Israel desató los bombardeos masivos sobre la población civil, Gaza era una prisión a cielo abierto, ahora es una explanada de escombros, un matadero sin salidas, un pozo de sangre donde desahoga toda su furia bélica y racista el Estado de Israel. En el momento de escribir estas líneas se han registrado 12 mil toneladas de bombas (33 toneladas de explosivos por kilómetro cuadrado), lo que equivale a la potencia explosiva de una bomba atómica. Han sido asesinado 21,000 personas palestinas, de las cuales 10,000 niños y niñas. Como bien resume el Capitán Marcos del EZLN:

“La niñez palestina asesinada no es una víctima colateral, es el objetivo principal de Netanyahu, siempre lo fue. Esa guerra no es para eliminar a Hamás. Es para matar el futuro. Hamás será sólo la víctima colateral.”
Para quienes venimos denunciando la guerra global permanente como dispositivo de reproducción constante de acumulación capitalista, es decir quienes entendemos que la guerra es la forma propia del sistema de dominación mundial no tenemos esperanza en una solución de arriba, sino creemos que la paz se teje abajo, casa por casa, pueblo por pueblo, tratando de romper los moldes y las fronteras mentales y físicas que nos impusieron el patriarcado, el nacionalismo y las religiones, en sus formas más conservadoras. Como pueblo mexicano, sabemos bien que, para resistirse al poder, se nos va la vida. La guerra no es un cuento lejano, es – con sus diferentes matices – el orden de día de nuestro presente.

Desde luego, unos cientos de kilómetros más al norte de Palestina, en el noreste de Siria, en otro territorio devastado por 12 años de guerra civil, hay un experimento social que no nos cansamos de difundir y dar a conocer: el Rojava y las otras regiones de la Administración Autónoma de NorEste de Siria (AANES), en donde justo se busca tejer una convivencia entre los pueblos kurdos, sirios, cristianos siriacos, turcomanos, árabes y más en una perspectiva feminista, socialista, pluri-confesional y ecológica. Un verdadero laboratorio de democracia directa, en el ojo del ciclón, donde la tormenta devasta con más virulencia. Una experiencia de auto-gobierno popular de cientos de miles de familias y personas, con desgraciadamente demasiado enemigos, tantos locales y regionales cuantos entre las grandes potencias en disputa en el Medio Oriente.

Durante esta sangrienta Navidad, mientras el ejército israelí perpetraba otra masacre de civiles en el campamento de Al Maghazi, el ejército turco (aliado de aquel en la OTAN) bombardeó una clínica en Kobane y las infraestructuras civiles en Qamishlo, provocando 9 muertos más entre los civiles. Según un informe reciente del Centro de Información de Rojava (RIC), los ataques turcos con aviones no tripulados han matado a 83 personas en el noreste de Siria en este 2023. Además, con los ataques aéreos de los últimos tres meses mataron a 60 personas más. Entre las víctimas, muchos civiles y cuadros políticos y de las Unidades de Autodefensas del Pueblo (YPG/YPJ) y de las Fuerzas Democráticas Sirias (FDS).

El presidente fascista de Turquía, Tayep Erdogan, está aprovechando la coyuntura y la atención mundial sobre Palestina para recrudecer los ataques contra la verdadera democracia directa de Medio Oriente, esperando así poder aplastar la esperanza de un mundo mejor, esperando que una masacre tape otra.
Pero nosotros, como pueblos, colectivos y organizaciones en lucha de México no volteamos la mirada, denunciamos tanto al gobierno de Israel que al de Turquía como asesinos, ambos dedicados a invadir violentamente territorios indígenas aplicando la limpieza étnica entre sus habitantes. El drama del pueblo palestino es el drama del pueblo kurdo y ambos pueblos nos han enseñado la dignidad, la valentía y la resistencia.

Por un mundo donde quepan muchos mundos: paz con dignidad para los pueblos de Medio Oriente.

¡Paremos el genocidio en Gaza!
¡Paremos la Ocupación sionista en Palestina!
¡Defendamos la Revolución en Rojava!

Alianza Magonista Zapatista (AMZ):
Colectivo Autónomo Magonista (CAMA)
Comité de Defensa de los Derechos Indígenas (CODEDI)
Nodo Solidale
Organizaciones Indias por los Derechos Humanos en Oaxaca (OIDHO)
Brigada Callejera de Apoyo a la Mujer “Elisa Martinez”
Organizacion popular Francisco villa de izquierda independiente OPFVII
Proceso de Articulación de la Sierra de Santa Marta
Vendaval – cooperativa panadera y algo más

CHIAPAS: UN’INFINITA GUERRA SPORCA

Qui in Chiapas continuano a volare proiettili da ogni parte.

 

Ancora una volta scriviamo una denuncia che è un appello urgente. Come collettivo Nodo Solidale (di cui una parte vive in Chiapas, Messico) prendiamo parola per dar voce al grido d’allarme che risuona da questa terra ferita e ribelle.  Vi preghiamo di diffondere questo comunicato e, nella misura del possibile di agire, facendo striscionivolantinaggi e tutto ciò che la vostra creatività militante possa inventare per visibilizzare questa guerra altrimenti relegata nell’ombra.

Continua la lettura di CHIAPAS: UN’INFINITA GUERRA SPORCA