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Le YPJ nella Siria di oggi / Las YPJ en la Siria de hoy

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Proponiamo la traduzione di questa recente intervista a Rohilat Afrin, Comandante Generale delle Unità di Difesa delle Donne (YPJ), una delle più importanti vertebre del processo politico straordinario dell’Amministrazione Autonoma del Nord ed Est della Siria. Consideriamo che le parole della Comandante ci aggiornano e fanno luce sui complessi rapporti di forza dentro lo scenario della Siria post-Assad e ci ricordano la necessità di mantenere alto il livello di organizzazione attorno alle conquiste sociali della “Rivoluzione di Rojava”.

Rohilat Afrin: “Siamo al tavolo delle trattative grazie ai nostri propri sforzi”

Di Meghan Bodette e Aras Yussef, 11 dicembre 2025

Questa è un’intervista è del Kurdish Peace Institute di Qamishlo, che fornisce l pubblico informazioni concrete e radicate a livello locale su questioni critiche che riguardano la Siria nord-orientale, la regione e il mondo. L’intervista è stata tradotta dal curdo all’inglese e leggermente modificata per maggiore chiarezza. La traduzione dall’inglese è del Nodo Solidale. Link dell’articolo originale qui.

Kurdish Peace Institute: Grazie per il suo tempo e le sue riflessioni. Può presentarsi e spiegare il ruolo che le Unità di Difesa delle Donne (YPJ) svolgono nelle Forze Democratiche Siriane (SDF) e in Siria settentrionale e orientale in generale?

Rohilat Afrin: Sono Rohilat Afrin, comandante generale delle YPJ. Sono anche membro del comando generale delle SDF. Le YPJ esistono in qualche forma da quasi tredici anni, cioè per tutta la durata della rivoluzione del Rojava. Se vogliamo parlare in modo ufficiale, le YPJ esistono da 11, 12 anni.

Le YPJ sono diventate parte integrante della difesa della nostra società. Per la prima volta, un esercito di donne è stato in grado di opporsi a una forza invasora e oppressiva. Poiché l’YPJ si basa sul concetto di autodifesa, non c’è stata nessuna reazione sociale contro la partecipazione delle donne nelle forze armate. Questa società ha sempre avuto bisogno di difendersi. Se guardiamo alla storia, il popolo curdo e il popolo siriano hanno attraversato molte guerre, ma non si è mai sviluppata nessuna forza in grado di assumersi la responsabilità della difesa della loro terra e del loro paese. Certo, le persone sono andate a combattere e sono diventate soldati. Ma il servizio militare le ha separate da se stesse, dalla loro terra, dalla loro causa, dalla loro società. Hanno servito i regimi sotto cui vivevano.

L’YPJ è importante come forza armata, come modello e per il suo impatto sulla società. Perché qual è la necessità fondamentale delle donne in tutto il mondo? È l’autodifesa. L’YPJ si è organizzata inizialmente attorno a questa idea e a questo principio, non alle armi. Abbiamo scelto l’autodifesa come obiettivo, credendo nelle nostre conoscenze e capacità come donne.

L’esistenza dell’YPJ in Rojava, nel nord-est della Siria, è una boccata d’aria fresca per tutte le donne che soffrono nel XXI secolo. Non solo per le donne curde, non solo per le donne della nostra regione, ma per tutte le donne. In pochissimo tempo, il nostro modello, il nostro esercito e le nostre idee sono diventati noti in molti paesi stranieri. Non siamo mai state in America. Ma la nostra prospettiva ha raggiunto l’America. Non eravamo in Europa, ma la nostra prospettiva ha raggiunto l’Europa. Non eravamo in altre parti del Medio Oriente, ma la nostra prospettiva si è diffusa in tutta la regione. Nel XXI secolo, è diventato chiaro che le donne e la società avevano bisogno di qualcosa del genere. Questa necessità ha raggiunto tutte le donne.

La nostra società curda aveva una certa esperienza in questo senso. Molte delle nostre amiche, vicine, parenti erano andate a combattere, ad esempio, con lo YJA-STAR [il braccio armato femminile del PKK]. Questo già esisteva. Abbiamo aperto gli occhi in questo modo: dove è andata questa donna? Perché ha preso le armi? Posso dire che il livello di organizzazione militare delle donne in Kurdistan ha avuto un impatto su di noi. In particolare, abbiamo visto che ogni donna che ha lasciato la propria casa per combattere, che è andata in Iraq, in Turchia, lo ha fatto per difendere tutto il Kurdistan e tutto il popolo curdo.

Con la sua motivazione, la sua filosofia e la sua prospettiva di autodifesa, l’YPJ è stata in grado di chiudere la porta a un gruppo come l’ISIS durante gli anni più lunghi e bui della guerra in Siria. L’ISIS sembrava inarrestabile in tutto il mondo. Ma qui, una lotta condotta sotto la guida delle donne è riuscita a sconfiggere l’ISIS. Non è una cosa normale. Forse ci siamo abituate, perché viviamo in questa realtà, fa parte di ciò che siamo. Ma altrove è diventata una storia, una leggenda, un argomento di interesse. Come hanno fatto quelle donne a raggiungere questo risultato? Posso dirvi come.

Noi, come YPJ, non abbiamo iniziato con le armi. Voglio sottolineare questo fatto. Abbiamo iniziato con l’organizzazione. La nostra arma più grande all’inizio era la nostra organizzazione. Da due, tre, quattro donne, siamo diventate centinaia e centinaia.

All’inizio, abbiamo detto che noi donne dovevamo essere lì, nelle forze armate. Vedevamo dieci uomini, venti uomini, l’intera accademia militare, e tra loro c’erano forse quattro o sei donne. Non c’erano molte donne. Ma avevamo la convinzione che le donne dovevano essere lì e fare questo lavoro, che noi donne dovevamo unirci. E quando la società ha visto che avevamo un obiettivo, che avremmo fatto qualsiasi cosa per combattere e proteggere la nostra terra, la nostra gente, le nostre famiglie, ha iniziato a sostenerci.

Quindi, posso dire che l’YPJ, sia come esercito che come filosofia, ha raggiunto questo livello grazie alla sua capacità di organizzazione. Se non avesse avuto questa forza organizzativa, se non avesse avuto una base filosofica e teorica e non avesse scelto i leader giusti, forse non sarebbe potuto diventare l’esercito che è oggi. Queste cose sono fondamentali. Per diventare un esercito, servono un obiettivo e un’organizzazione. Nel XXI secolo, le donne di tutto il mondo stanno imparandodall’YPJ come difendersi. Siamo diventate un’ispirazione per tutte le donne, non solo per quelle del Kurdistan, del Rojava o della Siria. In ogni epoca, i popoli e le società hanno qualche tipo di esigenza e la leadership si sviluppa per soddisfarla. Ora possiamo dire che l’YPJ sta svolgendo questo ruolo per le donne.

Può fornire un esempio specifico dell’impatto delle forze composte esclusivamente da donne sulla sicurezza, la governance o la società? In altre parole, quali sono alcune delle cose che l’YPJ fa e che le unità maschili o miste non potrebbero fare o non farebbero altrettanto bene?

Le racconterò una storia che ho condiviso molte volte. Abbiamo aperto la nostra prima accademia femminile ad Afrin. Volevamo che le donne imparassero a difendersi in ogni modo possibile. Nel programma, ad esempio, abbiamo detto che le donne avrebbero dovuto allenarsi per imparare a conoscere la loro forza fisica. Le donne dovevano anche imparare la loro forza mentale, attraverso l’educazione politica e ideologica. E in terzo luogo, ci sarebbe stata l’educazione militare. Dovevano imparare a usare la tecnologia che avrebbero avuto a disposizione. Non abbiamo mai pensato di iniziare con le armi. Prima di imbracciare le armi, le donne dovevano capire la politica, l’ideologia e la filosofia.

Abbiamo riunito un gruppo di 30 o 35 donne. Tra loro c’era una madre che poteva avere 50 anni. Era di Amude. All’inizio abbiamo discusso tra noi se sarebbe stata in grado di partecipare a tutte le attività dell’accademia. Le abbiamo parlato e le abbiamo detto che avremmo dovuto rifiutarla: il programma era difficile, le condizioni dell’accademia erano dure e temevamo che potesse essere troppo per lei. Naturalmente, lei ci ha dato una lezione proprio lì. “Chi siete voi per cacciarmi da questa formazione!”, ha risposto.

La filosofia ci insegna che la prima cosa da fare è conoscere se stessi. Questa madre, che ci ha chiesto chi fossimo noi per fermarla, che ha detto che anche lei voleva imparare a combattere, sapeva chi era e quel giorno ha dato a tutti noi una lezione di autodifesa. Ha detto che non avrebbe lasciato l’accademia finché non avesse imparato a usare la sua arma e, con quella determinazione, non se ne è andata. La nostra forza e la nostra capacità organizzativa come YPJ derivano da donne come lei.

L’autodifesa è la parte più importante della civiltà. Non è necessaria solo quando una società è in guerra. Le minacce provengono dalla natura, dagli animali, da altre persone, da qualsiasi luogo: bisogna essere in grado di proteggere la propria società da qualsiasi pericolo. Oggi vediamo che le persone meno protette nella società sono le donne. Le donne subiscono violenza domestica, stupri, disuguaglianze e vengono sminuite quando chiedono la fine delle ingiustizie. Alcuni attacchi alle donne potrebbero non essere fisici, ma alla base della violenza fisica c’è l’idea che qualcuno sia inferiore. Se i tuoi diritti, il tuo corpo, la tua lingua, la tua cultura, la tua opinione vengono negati e ignorati, potresti essere attaccata.

L’YPJ ha ribaltato questo status quo. Noi diciamo che ovunque una donna subisca violenza – a casa sua, da criminali per strada, da una mentalità che nega alle donne la parità di umanità – deve essere in grado di difendersi. Abbiamo iniziato il nostro lavoro su questa base. E, naturalmente, in ultima analisi, se c’è un attacco da parte di un nemico straniero, anche lei deve prendere le armi e difendersi. Prima, le donne potevano lasciare le loro case e le loro comunità, lasciare questa regione e andare in altre parti del Kurdistan per combattere. Forse la loro lotta non ha avuto un grande impatto sulla comunità in generale. Ma le YPJ sono diverse. Abbiamo difeso la nostra società dall’interno. Non abbiamo aspettato che qualcuno venisse dall’esterno a salvarci. E naturalmente, se questo non fosse stato collegato a un’ideologia e a un obiettivo, non sarebbe stato possibile. Questo legame, questa base, è il motivo per cui nessuno è riuscito a distruggere la nostra organizzazione in 12 anni. Il ruolo delle YPJ è diventato evidente per la prima volta nella guerra contro l’ISIS e continua ancora oggi.

La caduta del regime nel 2024 e l’arrivo delle forze islamiste radicali hanno portato tutti a chiedersi: qual è il futuro delle YPJ? Non solo delle YPJ, ma anche della popolazione, di tutta la Siria settentrionale e orientale, del sistema autonomo locale. Come potremmo vivere sotto il loro dominio? Due sistemi molto diversi si sono ora confrontati in Siria. Uno è un sistema duro e fondamentalista. L’altro, la nostra amministrazione, si basa sulla volontà del nostro popolo.

Come lei descrive, la Siria è ora divisa tra due sistemi politici molto diversi. Questi due sistemi hanno lavorato per unirsi nel quadro dell’accordo di integrazione del 10 marzo 2025 firmato dal comandante in capo delle SDF Mazlum Abdi e dal presidente siriano Ahmed al-Sharaa. In generale, come stanno procedendo i colloqui di integrazione? Qual è il ruolo delle donne e delle strutture femminili in questi colloqui?

È passato un anno dalla caduta del regime. In questo periodo ci sono stati molti cambiamenti. Ancora una volta, persone innocenti sono diventate vittime della guerra. È passato un anno da quando gli sfollati di Afrin sono stati costretti a lasciare Shahba, per esempio. Lo Stato non è così scosso. Quando le persone vengono attaccate, uccise, costrette a migrare, lo Stato non ascolta.

Ora, la domanda più importante è questa. La forza che ora domina la Siria ha un passato come entità radicale che ha devastato e oppresso persone innocenti. Proviene dal jihadismo, da al-Qaeda. Da lì, dove è andata e dove andrà? Come è arrivata al potere? Chi l’ha sostenuta? Come è diventata così legittimata? Dobbiamo capirlo. Anche se, naturalmente, quando una forza diventa uno Stato, nessuno presta molta attenzione a ciò che poteva essere prima.

60 anni fa, in Siria è stato creato un sistema centralizzato. Il popolo siriano ha sofferto in ogni modo inimmaginabile a causa di questo sistema. Ora, con l’arrivo del governo di transizione di Sharaa, dobbiamo guardare a questa storia. Anche la comunità internazionale può valutare la situazione. Da parte nostra, come Siria del Nord e dell’Est, SDF e YPJ, abbiamo intrapreso molti dialoghi e negoziati. Il risultato più importante di questi impegni è stato l’accordo del 10 marzo. Questo accordo è stato raggiunto sul principio che questa società, questa componente, la sua lingua, la sua cultura, i suoi diritti e la sua esistenza saranno riconosciuti nella costituzione.

La garanzia più importante per qualsiasi società sono i diritti costituzionali. Se una comunità, un popolo, una lingua o una componente non sono riconosciuti dalla costituzione, la loro esistenza nel proprio paese è minacciata. Se non si ha alcuna presenza nelle assemblee e nei parlamenti, non si esiste.

Ci sono stati molti cambiamenti nel XXI secolo. Il governo di transizione stesso non nasconde ciò che era in passato. Prima lo Stato Islamico, poi Al-Qaeda, al-Nusra, poi HTS, e HTS è diventato un governo, uno Stato. Questo è un cambiamento, e non può essere solo superficiale. Il mondo deve crederci. Se vogliono allontanarsi da una storia così oscura e diventare i rappresentanti di una repubblica, allora devono riconoscere i diritti di tutte le componenti.

Per tredici anni abbiamo combattuto questa battaglia. Molte persone hanno dato la vita. Possiamo dire che c’è stato un cambiamento, che il vecchio sistema è stato distrutto, ma questo di per sé non è sufficiente. Siamo pronti a vivere in una Siria unificata, ma deve essere una Siria democratica. Questa Siria democratica deve proteggere i diritti di tutti i suoi popoli: curdi, arabi, siriaci, musulmani, cristiani, drusi. E la migliore garanzia di questa protezione è il riconoscimento di tutte le componenti nella costituzione. L’integrazione parte da qui.

All’inizio hanno detto che ogni soldato delle SDF avrebbe dovuto arruolarsi nell’esercito, uno per uno. Ma le SDF non possono arruolarsi in questo esercito come individui. Abbiamo detto loro: va bene, siamo pronti ad arruolarci nell’esercito, ma in quale esercito volete che ci arruoliamo? Esiste qualcosa che si chiama esercito in Siria? No! Ci sono più di 100 milizie. Ognuno forma il proprio gruppo e gli dà un nome. Abu Amsha ha una milizia, Abu Shaqra ha una milizia, Hamzat ha una milizia. Si può chiamare un esercito?

In tutta la Siria, l’unico esercito che ha una struttura, esperienza e capacità è l’SDF. Per tredici anni, questa forza ha combattuto contro l’ISIS, contro le potenze straniere che ci hanno attaccato. Noi diciamo che l’SDF può essere un modello per l’esercito siriano. Perché questo dovrebbe danneggiare la Siria? Non danneggerà affatto l’unità della Siria. Le SDF sono qui oggi, ma domani potremmo proteggere Damasco. Potremmo proteggere Aleppo, Suwayda o la costa. Il modello delle SDF può essere un modello per il nuovo esercito siriano. Quando diciamo questo, non stiamo dicendo che la Siria dovrebbe essere divisa o che vogliamo vivere separatamente. Non diciamo che dobbiamo essere indipendenti. Quello che chiediamo è una Siria democratica che riconosca i diritti di tutte le sue componenti.

Per quanto riguarda l’integrazione, abbiamo iniziato insieme, ma non abbiamo ancora raggiunto un accordo. Recentemente, ci sono state alcune discussioni su come potremmo organizzarci come parte del nuovo esercito. Ma la questione fondamentale sono le garanzie costituzionali. Quando le avremo, potremo parlare delle SDF, delle nostre istituzioni, di tutto.

Il tempo in cui viviamo richiede che tutti cambino se stessi. In Siria, il vecchio sistema è caduto. Non viviamo più nell’era pre-2011. Quando Assad era al potere, aveva uno Stato centralizzato. Quello Stato è stato distrutto. Se lo stesso sistema centralizzato cerca di ricostruirsi con un colore diverso, non si tratta di un vero cambiamento.

Tutto questo per dire che sì, i negoziati sono in corso, ma non abbiamo ancora concordato misure concrete da adottare insieme. Al tavolo delle trattative tutto viene approvato, ma una volta alzati dal tavolo la situazione rimane quella di prima. Lo vediamo in particolare dal lato del governo di transizione. Lasciatemi ripetere: il nostro obiettivo non è la divisione della Siria. Il nostro obiettivo è una Siria democratica. Se guardate le SDF, vedrete che hanno costruito un esercito che include tutte le componenti. Anche le YPJ sono così. Donne di tutte le componenti siriane hanno aderito alle YPJ. Possiamo mettere questa esperienza al servizio di tutta la società siriana. Ad esempio, quando l’ISIS era a Deir Ezzor, non abbiamo detto: “Deir Ezzor è una regione araba, non ci andremo”. Abbiamo combattuto l’ISIS ovunque andasse e abbiamo dato migliaia di martiri per farlo. Raqqa non è nemmeno una città curda. Le nostre forze, le nostre idee e i nostri obiettivi hanno unito persone di tutte le componenti e abbiamo protetto insieme tutta la Siria settentrionale e orientale.

Lei ha detto che alcuni punti sono stati discussi nei colloqui sull’integrazione, ma non sono ancora stati messi in pratica. Vorremmo chiedere quale sia lo status dell’YPJ in questo contesto. Alcune fonti hanno affermato che il governo di transizione è disposto a consentire alle YPJ di entrare a far parte dell’esercito come brigata speciale. Altre fonti suggeriscono che gli Stati Uniti abbiano appoggiato la posizione delle SDF sull’integrazione delle YPJ. Queste affermazioni sono accurate? E cosa può dirci sulle condizioni delle YPJ per la partecipazione al nuovo esercito?

Dalla caduta del regime ad oggi, le forze della coalizione hanno svolto un ruolo di mediazione. Nessuno può negarlo. Molti dialoghi hanno avuto luogo grazie alla loro mediazione. Ma siamo al tavolo delle trattative grazie ai nostri risultati. I nostri successi, la nostra forza e il nostro potere, lo sforzo di questa società: senza tutto questo, non saremmo qui a negoziare. Per anni abbiamo avuto un rapporto con la Coalizione nel contesto della nostra lotta comune contro l’ISIS. Questo ha creato una vera amicizia e comprensione. Ma sono stati i risultati di questa rivoluzione a portarci al tavolo delle trattative.

Noi, in particolare come YPJ, siamo presenti ai negoziati grazie a ciò che abbiamo realizzato. Tutti ci dicevano che non sarebbe stato possibile, che non ci avrebbero accettato. Ma non stiamo negoziando a titolo personale. Portiamo con noi i risultati di una rivoluzione. Chi siede di fronte a noi può vederlo.

Per questo motivo – e forse l’ho già detto prima – il cambiamento è una condizione del nostro tempo. Questo regime deve cambiare se stesso. Ora tutti ci chiedono se siamo state accettate perché siamo al tavolo delle trattative. Senza questa esperienza, senza questi risultati, non saremmo nemmeno entrate nella stanza. Non crediamo di meritare di essere al tavolo solo perché siamo donne. Ma se facciamo parte di questa rivoluzione, perché non dovremmo partecipare ai negoziati? Abbiamo partecipato dall’inizio alla fine. È un diritto perfettamente naturale.

Non voglio entrare nel merito della questione delle brigate e delle divisioni, perché si tratta di una conversazione, non di un accordo. Non sarebbe appropriato da parte mia dire qualcosa di concreto in questo momento. Ma abbiamo avanzato l’idea che le YPJ dovrebbero mantenere la loro autonomia. Oggi non siamo nemmeno completamente integrate nelle SDF. Naturalmente, quando c’è un interesse generale, se questa terra è sotto attacco, lavoreremo insieme per servire il nostro popolo. Ma per il resto, abbiamo il nostro comando, i nostri centri, le nostre istituzioni, e ci organizziamo e ci formiamo al loro interno. In questo modo, proteggiamo la nostra autonomia. Chi prende le decisioni e apporta cambiamenti istituzionali nelle nostre forze è il Comando delle donne. Il Comando generale delle SDF non può cambiare questo. Il generale Mazlum sarà anche il comandante generale delle SDF, ma non può costringermi a fare nulla. Non può apportare cambiamenti nelle nostre forze femminili né mandarmi in una posizione diversa. Chi può farlo? Il Comando delle donne. Questo significa che proteggiamo la nostra autonomia e libertà. Tutti devono saperlo.

La nostra visione come YPJ è che dobbiamo difendere questo status. Dobbiamo avere un posto nel sistema militare. Ci organizziamo sia orizzontalmente che verticalmente. Ad esempio, abbiamo anche una forza sociale, ci organizziamo anche nella vita civile. Esistiamo come forza autonoma all’interno della struttura delle SDF, ma ci sono donne anche in unità delle SDF non appartenenti alla YPJ: non è un esercito solo per uomini.

Per tredici anni abbiamo difeso questo Paese, ma nessuno a Homs, Hama, Suwayda o sulla costa aveva mai sentito parlare di noi. Tutti fuori dalla Siria, negli Stati Uniti, in Russia, in Europa, sapevano dell’esistenza delle YPJ, ma purtroppo, all’interno della Siria, le donne siriane non ci conoscevano. Ora che il regime è caduto, le donne di tutta la Siria possono vederci e molte vogliono organizzarsi come noi. Quindi, le YPJ si proteggeranno come forza femminile autonoma nel nord-est della Siria. Quando raggiungeremo un accordo con Damasco, le YPJ potranno svolgere un ruolo per tutta la Siria. Ma manterremo il nostro status speciale. Non rinunceremo alla nostra esistenza e alla nostra organizzazione. La necessità di autodifesa non scompare solo perché ci stiamo avvicinando alla pace. Forse non avremo più a che fare con lo stesso nemico, ma potrebbero esserci degli attacchi. Bisogna essere pronti. Soprattutto le donne: le donne non possono permettersi di rinunciare alla capacità di autodifesa, né in tempo di guerra né in tempo di pace. Questa è la nostra opinione come YPJ.

Lei stessa ha partecipato ai colloqui di integrazione con Damasco. Molti alti funzionari del governo di transizione provengono da un background islamista radicale, mentre lei rappresenta un movimento radicale per l’autodeterminazione e la liberazione delle donne. Come si comportano nei confronti di te e delle altre donne leader delle delegazioni della Amministrazione Autonoma Democratica del Nord ed Est di Siria (DAANES) e SDF? Pensi che l’esperienza di negoziare con le donne della DAANES e della SDF possa cambiare la loro visione del ruolo delle donne nella nuova Siria?

Stanno cercando di cambiare la loro immagine. Di conseguenza, quando interagiscono con noi, non succede nulla di insolito. Tutto rientra nel normale protocollo. Quando li salutiamo, ad esempio, alcuni ci stringono la mano e altri no. Da questo, come donne possiamo capire che provengono da un contesto piuttosto rigido. In definitiva, però, c’è un approccio molto pragmatico che ha un impatto sulle discussioni e sulla situazione generale. Si nota un ammorbidimento nella loro retorica quando discutiamo con loro. Ma nella pratica, dove non cambia nulla, si nota il loro radicalismo. Ci hanno fatto molte richieste che abbiamo soddisfatto. Più recentemente, sulla questione dell’integrazione militare, abbiamo presentato loro nomi e idee. Nei media ci accusano di ostacolare i colloqui. Ma in realtà sono loro che rallentano i negoziati e si rifiutano di rispondere alle nostre proposte.

Se questo governo riuscirà a credere nell’esistenza di tutte le fedi, le lingue e le comunità siriane, se riuscirà a rendersi conto che questo pluralismo esiste, allora la Siria potrà diventare un paese democratico. Molti siriani arabi sunniti, che costituiscono la maggioranza del Paese, non accettano questa mentalità esclusiva. Non è solo una questione che riguarda le minoranze religiose o etniche. Se il governo di transizione riuscirà a cambiare se stesso e ad accettare le realtà del XXI secolo e le esigenze della società, la Siria vivrà in pace. Se non riuscirà a cambiare, vedrà solo crisi più gravi.

Vorrei dire una cosa importante: questo governo non è completamente indipendente. Ci sono molti paesi stranieri che vogliono influenzare i colloqui sull’integrazione. Non voglio nominarli qui. Se la Siria deve essere un paese per tutti i siriani, queste forze straniere dovrebbero smettere di cercare di influenzare i negoziati. Lasciamo che il governo di transizione condivida le proprie opinioni, libero dall’influenza di punti di vista esterni. È chiaro che il governo è sotto pressione da parte delle forze straniere. Senza questo, un accordo sarebbe stato più facile.

Noi [i predecessori delle SDF e del governo di transizione] abbiamo combattuto gli uni contro gli altri nel 2012 e nel 2013, ma oggi stiamo dialogando. Non è una novità nel mondo. Coloro che combattono le guerre più brutali gli uni contro gli altri si riuniscono per negoziare la pace.

In molti paesi europei, come la Svizzera, molti popoli vivono insieme e ogni popolo ha i propri diritti. A volte possono essere meno di un milione, ma ottengono comunque i loro diritti. Perché la Siria non potrebbe farlo? Quale danno causerebbe che lo renderebbe impossibile? Questo governo deve ascoltare la voce del popolo, non le influenze straniere. In questo modo, possiamo costruire insieme una Siria pacifica e democratica.

Molti qui dicono che Jabhat al-Nusra si sarebbe rifiutato di parlare con i combattenti dell’YPJ durante gli scontri e i negoziati del 2012-2013 a cui lei ha accennato; secondo quanto riferito, avrebbero chiesto di negoziare con gli uomini. Cosa può dirci al riguardo?

Sì, è vero, all’epoca non volevano parlare con noi. Ora, a causa di tutto ciò che è cambiato, devono farlo.

Ma sapete, anche nel 2012, quando ero ad Afrin, mi sono seduta con loro in più di un’occasione. Ovviamente era segreto, ma abbiamo dialogato, anche se alla fine loro preferivano parlare con gli uomini.

C’è qualcos’altro che vorrebbe aggiungere?

In qualsiasi paese, rivoluzione o processo di pace, se le donne non sono presenti, non è possibile trovare una soluzione.

La nostra rivoluzione lo ha dimostrato. Le donne che non potevano uscire di casa senza permesso ora possono fare politica, diplomazia, lavoro culturale. Questa libertà prima non esisteva. Ma la nostra mentalità e il nostro sistema hanno creato vera fiducia e convinzione. La leadership delle donne è l’aspetto di questa rivoluzione che ha suscitato maggiore interesse. Sia in guerra che in diplomazia, se le donne organizzate non sono presenti, non raggiungeremo una soluzione.

Il XXI secolo sarà il secolo delle donne e le soluzioni ai suoi problemi possono essere trovate con la leadership delle donne. In un luogo in cui le donne possono organizzarsi e guidare, il successo è possibile. Ma i luoghi in cui l’esistenza, le voci e le opinioni delle donne sono negate sono destinati alla distruzione.

La nostra rivoluzione ha raggiunto oggi un certo livello. Domani molte cose potrebbero cambiare. Potrebbe esistere con un nome diverso o un sistema diverso. I nostri obiettivi non cambieranno, ma molte cose che sono esistite fino ad oggi potrebbero apparire molto diverse. Perché questo processo, questo momento, questo secolo sono una fase di cambiamento. Ma ciò che è importante è che non deviamo dal percorso di coloro che si sono battuti per la democrazia, il pluralismo e tutti i nostri valori.

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Las YPJ en la Siria de hoy

Proponemos la traducción de esta reciente entrevista a Rohilat Afrin, Comandanta General de las Unidades de Defensa de las Mujeres (YPJ), una de las vértebras más importantes del extraordinario proceso político de la Administración Autónoma del Norte y Este de Siria. Consideramos que las palabras de la Comandanta nos ponen al día y arrojan luz sobre las complejas relaciones de poder en el escenario de la Siria post-Assad, y nos recuerdan la necesidad de mantener un alto nivel de organización en torno a los logros sociales de la «Revolución de Rojava».

Rohilat Afrin: «Estamos en juego gracias a nuestros propios esfuerzos»

Por Meghan Bodette y Aras Yussef, 11 de diciembre de 2025

Esta entrevista es un producto del Instituto Kurdo para la Paz en Qamishlo, que proporciona a los responsables políticos y al público información práctica y con arraigo local sobre cuestiones críticas a las que se enfrentan el noreste de Siria, la región y el mundo. La entrevista ha sido traducida del kurdo al inglés y ligeramente editada para mayor claridad. Traducción al español de Nodo Solidale.

Instituto Kurdo para la Paz: Gracias por su tiempo y sus opiniones. ¿Puede presentarse y explicar el papel que desempeñan las Unidades de Defensa de las Mujeres (YPJ) en las Fuerzas Democráticas Sirias (SDF) y en el norte y el este de Siria en general?

Rohilat Afrin: Soy Rohilat Afrin, comandante general de las YPJ. También soy miembro del mando general de las SDF. Las YPJ llevan existiendo de alguna forma desde hace casi trece años, es decir, desde el inicio de la Revolución de Rojava. Si queremos hablar oficialmente, las YPJ llevan existiendo desde hace 11 o 12 años.

Las YPJ se convirtieron en parte de la defensa de nuestra sociedad. Por primera vez, un ejército de mujeres fue capaz de plantar cara a una fuerza invasora y opresora. Dado que las YPJ se basan en el concepto de autodefensa, no hubo ninguna reacción social contra la participación de las mujeres en las fuerzas armadas. Esta sociedad siempre ha necesitado la capacidad de defenderse. Si miramos la historia, el pueblo kurdo y el pueblo sirio han pasado por muchas guerras, pero nunca se desarrolló ninguna fuerza que pudiera asumir la responsabilidad de la defensa de su tierra y su país. Ciertamente, la gente se alistó y se convirtió en soldados. Pero el servicio militar los separó de sí mismos, de su tierra, de su causa, de su sociedad. Sirvieron a los regímenes bajo los que vivían.

La YPJ es importante como fuerza armada, como modelo y por su impacto en la sociedad. Porque, ¿cuál es la necesidad más fundamental de las mujeres en todo el mundo? La autodefensa. La YPJ se organizó inicialmente en torno a esta idea y este principio, no en torno a las armas. Elegimos la autodefensa como objetivo, con la convicción de nuestro conocimiento y nuestra capacidad como mujeres.

La existencia de las YPJ en Rojava, en el noreste de Siria, es un soplo de aire fresco para todas las mujeres que sufren en el siglo XXI. No solo para las mujeres kurdas, no solo para las mujeres de nuestra región, sino para todas las mujeres. En muy poco tiempo, nuestro modelo, nuestro ejército y nuestras ideas se dieron a conocer en muchos países extranjeros. Nunca estuvimos en Estados Unidos. Pero nuestra perspectiva ha llegado a Estados Unidos. No estuvimos en Europa, pero nuestra perspectiva llegó a Europa. No estuvimos en otras partes de Oriente Medio, pero nuestra perspectiva se ha extendido por toda la región. En el siglo XXI, quedó claro que las mujeres y la sociedad necesitaban algo así. Esta necesidad llegó a todas las mujeres.

Nuestra sociedad kurda tenía cierta experiencia en esto. Muchas de nuestras amigas, vecinas y parientes habían ido a luchar, por ejemplo, con las YJA-STAR [el brazo armado femenino del PKK]. Esto existía. Abrimos los ojos a ello de esta manera: ¿A dónde fue esta mujer? ¿Por qué tomó las armas? Puedo decir que el nivel de organización militar de las mujeres en Kurdistán tuvo un impacto en nosotras. En particular, vimos que cada mujer que abandonó su hogar para luchar, que se fue a Irak, a Turquía, lo hizo para defender todo el Kurdistán y a todo el pueblo kurdo.

Con su motivación, su filosofía y su perspectiva de autodefensa, las YPJ lograron cerrar la puerta a un grupo como el ISIS durante los años más largos y oscuros de la guerra en Siria. El ISIS parecía imparable en todo el mundo. Pero aquí, una lucha librada bajo el liderazgo de las mujeres fue capaz de derrotar al ISIS. Esto no es algo normal. Quizás nos hemos acostumbrado a ello, porque vivimos en esta realidad, es parte de lo que somos. Pero en otros lugares, se convirtió en una historia, una leyenda, un tema de interés. ¿Cómo lo lograron esas mujeres? Puedo decirles cómo.

Nosotras, como YPJ, no empezamos con armas. Quiero destacar este hecho. Empezamos con la organización. Nuestra mayor arma al principio fue nuestra organización. De dos, tres, cuatro mujeres, pasamos a ser cientos y cientos.

Al principio, dijimos que las mujeres teníamos que estar allí, en las fuerzas armadas. Veíamos a diez hombres, veinte hombres, toda la academia militar, y entre ellos éramos quizás cuatro o seis mujeres. No había muchas mujeres en absoluto. Pero teníamos la convicción de que las mujeres teníamos que estar allí y hacer este trabajo, que nosotras, como mujeres, teníamos que unirnos. Y cuando la sociedad vio que teníamos un objetivo, que haríamos cualquier cosa para luchar por proteger nuestra tierra, nuestro pueblo, nuestras familias, empezaron a apoyarlo.

Así que puedo decir que las YPJ, tanto como ejército como filosofía, alcanzaron este nivel gracias a su capacidad de organización. Si no hubieran tenido esta fuerza organizativa, si no hubieran tenido una base filosófica y teórica, y si no hubieran elegido a los líderes adecuados, quizá no se habrían convertido en el ejército que son hoy. Estas cosas son fundamentales. Para convertirse en un ejército, se necesita un objetivo y una organización. En el siglo XXI, las mujeres de todo el mundo están aprendiendo a defenderse gracias a las YPJ. Nos hemos convertido en una inspiración para todas las mujeres, no solo para las de Kurdistán, Rojava o Siria. En cada época, los pueblos y las sociedades tienen algún tipo de necesidad y se desarrolla un liderazgo para satisfacerla. Ahora, podemos decir que las YPJ están desempeñando ese papel para las mujeres.

¿Puede dar un ejemplo concreto del impacto de las fuerzas exclusivamente femeninas en la seguridad, la gobernanza o la sociedad? Es decir, ¿qué cosas hace la YPJ que las unidades masculinas o mixtas no podrían hacer o no harían tan bien?

Le contaré una historia que he compartido muchas veces. Abrimos nuestra primera academia para mujeres en Afrin. Queríamos que las mujeres aprendieran a defenderse en todos los aspectos. En el programa, por ejemplo, dijimos que las mujeres tendrían que hacer ejercicio para desarrollar su fuerza física. Las mujeres también tenían que aprender a desarrollar su fuerza mental a través de la educación política e ideológica. Y, en tercer lugar, habría educación militar. Tenían que aprender a utilizar la tecnología que tendrían en sus manos. Nunca se nos ocurrió empezar con las armas. Antes de tomar las armas, las mujeres tenían que comprender la política, la ideología y la filosofía.

Reunimos a un grupo de entre 30 y 35 mujeres. Entre ellas había una madre que debía de tener unos 50 años. Era de Amude. Al principio, discutimos entre nosotros si sería capaz de participar en todas las actividades de la academia. Hablamos con ella y le dijimos que tendríamos que rechazarla: el programa era difícil, las condiciones en la academia eran duras y nos preocupaba que fuera demasiado para ella. Por supuesto, ella nos dio una lección allí mismo. «¡Quiénes son ustedes para echarme de esta formación!», respondió.

La filosofía nos dice que lo primero que hay que hacer es conocerse a uno mismo. Esta madre, que nos preguntó quiénes éramos nosotros para detenerla, que dijo que ella también quería aprender a luchar, sabía quién era, y ese día nos dio a todas una lección de autodefensa. Dijo que no se iría de la academia hasta que aprendiera a usar su arma, y con esa determinación, no se fue. Nuestra fuerza y capacidad organizativa como YPJ proviene de mujeres como ella.

La autodefensa es la parte más importante de la civilización. No solo es necesaria cuando una sociedad está en guerra. Las amenazas provienen de la naturaleza, de los animales, de otras personas, de cualquier lugar; hay que ser capaz de proteger a la sociedad de cualquier peligro. Hoy en día, vemos que las personas menos protegidas de la sociedad son las mujeres. Las mujeres se enfrentan a la violencia doméstica, a las violaciones, a la desigualdad, y se las menosprecia cuando piden que se ponga fin a la injusticia. Algunos ataques contra las mujeres pueden no ser físicos, pero la base de la violencia física es la idea de que alguien es inferior. Si se niegan e ignoran tus derechos, tu cuerpo, tu idioma, tu cultura, tu opinión, puedes ser atacada.

Las YPJ han cambiado ese status quo. Decimos que, dondequiera que una mujer se enfrente a la violencia —en su casa, por parte de delincuentes en la calle, por parte de una mentalidad que niega a las mujeres la igualdad humana—, debe poder defenderse.

Empezamos nuestro trabajo sobre esta base. Y, por supuesto, en última instancia, si hay un ataque de un enemigo extranjero, también debe tomar las armas y defenderse. Antes, las mujeres podían haber abandonado sus hogares y comunidades, haber dejado esta región y haberse ido a otras partes del Kurdistán para luchar. Quizás su lucha no tuvo tanto impacto en la comunidad en general. Pero las YPJ son diferentes. Defendimos nuestra sociedad desde adentro. No esperamos a que nadie viniera de fuera a salvarnos. Y, por supuesto, si esto no estuviera conectado con una ideología y un objetivo, no habría sido posible. Esta conexión, esta base, es la razón por la que nadie ha podido destruir nuestra organización en 12 años. El papel de las YPJ se hizo evidente por primera vez en la guerra contra el ISIS y ha continuado hasta hoy.

La caída del régimen de Assad en Siria en 2024 y la llegada de fuerzas islamistas radicales hicieron que todo el mundo se preguntara: ¿cuál es el futuro de las YPJ? No solo las YPJ, sino también el pueblo, todo el norte y el este de Siria, el sistema autónomo de aquí. ¿Cómo podríamos vivir bajo su dominio? Ahora se enfrentan en Siria dos sistemas muy diferentes. Uno es un sistema duro y fundamentalista. El otro, nuestra administración, se basa en la voluntad de nuestro pueblo.

Tal y como lo describes, Siria está ahora dividida entre dos sistemas políticos muy diferentes. Estos dos sistemas han estado trabajando para unirse bajo el marco del acuerdo de integración del 10 de marzo de 2025 firmado por el comandante en jefe de las SDF, Mazlum Abdi, y el presidente sirio, Ahmed al-Sharaa. En general, ¿cómo avanzan las conversaciones de integración? ¿Cuál es el papel de las mujeres y las estructuras de mujeres en ellas?

Ha pasado un año desde la caída del régimen. Ha habido muchos cambios en ese tiempo. Una vez más, personas inocentes se convirtieron en víctimas de la guerra. Por ejemplo, ha pasado un año desde que los desplazados de Afrin fueron expulsados de Shahba. El Estado no se ve tan afectado. Cuando la gente es atacada, asesinada, obligada a emigrar, el Estado no escucha.

Ahora, la gran pregunta es esta. La fuerza que ahora domina Siria tiene un pasado como entidad radical que devastó y oprimió a personas inocentes. Proviene del yihadismo, de Al Qaeda. A partir de ahí, ¿adónde ha ido y adónde irá? ¿Cómo llegó al poder? ¿Quién la apoyó? ¿Cómo se ha legitimado tanto?

Tenemos que entender esto. Aunque, por supuesto, cuando cualquier fuerza se convierte en un Estado, nadie presta mucha atención a lo que pudo haber sido antes. Hace 60 años, se creó un sistema centralizado en Siria. El pueblo sirio sufrió de todas las formas imaginables a causa de este sistema. Ahora, con la llegada del gobierno de transición de Sharaa, debemos examinar esta historia.

La comunidad internacional también puede evaluar la situación. Por nuestra parte, como Siria del Norte y del Este, las SDF y las YPJ, hemos participado en muchos diálogos y negociaciones. El resultado más importante de estos compromisos fue el “Acuerdo del 10 de Marzo”. Este acuerdo se alcanzó sobre la base del principio de que esta sociedad, este componente, su lengua, su cultura, sus derechos y su existencia serán reconocidos en la Constitución.

La garantía más importante para cualquier sociedad son los derechos constitucionales. Si una comunidad, un pueblo, una lengua o un componente no están reconocidos por la Constitución, su existencia en su país se ve amenazada. Si no tienes presencia en las asambleas y los parlamentos, no existes.

Ha habido muchos cambios en el siglo XXI. El propio gobierno de transición no oculta lo que solía ser. Primero fue el Estado Islámico, luego Al Qaeda, Al Nusra, luego HTS, y HTS llegó a convertirse en un gobierno, un Estado. Eso es un cambio, y es un cambio que no puede ser meramente cosmético. El mundo debe creerlo. Si quieren alejarse de una historia tan oscura y convertirse en los representantes de una república, entonces tienen que reconocer los derechos de todos los componentes.

Durante trece años hemos librado esta lucha. Muchas personas han dado su vida. Podemos decir que ha habido un cambio, que el antiguo sistema ha sido destruido, pero eso por sí solo no es suficiente. Estamos preparados para vivir en una Siria unificada, pero debe ser una Siria democrática. Esta Siria democrática debe proteger los derechos de todos sus pueblos: kurdos, árabes, sirios, musulmanes, cristianos, drusos. Y la mejor garantía de esta protección es el reconocimiento de todos los componentes en la Constitución. La integración comienza aquí.

Al principio, dijeron que cada soldado de las SDF debía unirse al ejército uno por uno. Pero las SDF no pueden unirse a este ejército como individuos. Les dijimos: «De acuerdo, estamos dispuestos a unirnos al ejército, pero ¿a qué ejército quieren que nos unamos? ¿Existe algo llamado ejército en Siria? ¡No! Hay más de 100 milicias. Cada uno forma su grupo y le da un nombre. Abu Amsha tiene una milicia, Abu Shaqra tiene una milicia, Hamzat tiene una milicia. ¿Se puede llamar a eso un ejército?

En toda Siria, el único ejército que tiene estructura, experiencia y capacidades es el SDF. Durante trece años, esta fuerza luchó contra el ISIS, contra las potencias extranjeras que nos atacaron. Decimos que el SDF puede ser un modelo para el ejército sirio. ¿Por qué eso perjudicaría a Siria? No perjudicará en absoluto la unidad de Siria. Las SDF están aquí hoy, pero mañana podríamos proteger Damasco. Podríamos proteger Alepo, Suwayda o la costa. El modelo de las SDF puede ser un modelo para el nuevo ejército sirio. Cuando decimos esto, no estamos diciendo que Siria deba dividirse o que queramos vivir separados. No decimos que tengamos que ser independientes. Lo que pedimos es una Siria democrática que reconozca los derechos de todos sus componentes.

En cuanto a la integración, empezamos juntos, pero aún no hemos llegado a un acuerdo. Recientemente, hubo algunos debates sobre cómo podríamos organizarnos como parte del nuevo ejército. Pero la cuestión fundamental son las garantías constitucionales. Cuando las tengamos, podremos hablar de las SDF, de nuestras instituciones, de todo.

La época en la que vivimos exige que todos cambien. En Siria, el antiguo sistema cayó. Ya no vivimos en la era anterior a 2011. Cuando Assad estaba en el poder, tenía un Estado centralizado. Ese Estado fue destruido. Si el mismo sistema centralizado intenta reconstruirse con un color diferente, eso no es un cambio real.

Todo esto quiere decir que sí, se están llevando a cabo negociaciones, pero aún no hemos acordado medidas prácticas que tomar juntos. Sobre la mesa, todo está aprobado, pero una vez que nos levantamos de la mesa, la situación sigue siendo la misma. Lo vemos especialmente por parte del gobierno de transición. Permítanme repetirlo: nuestro objetivo no es la división de Siria. Nuestro objetivo es una Siria democrática. Si se fijan en las SDF, verán que han creado un ejército que incluye a todos los componentes. Las YPJ también son así. Mujeres de todos los componentes sirios se han unido a las YPJ. Podemos poner esta experiencia al servicio de toda la sociedad siria. Por ejemplo, cuando el ISIS estaba en Deir Ezzor, no dijimos «Deir Ezzor es una región árabe, no iremos allí». Luchamos contra el ISIS dondequiera que fuera y dimos miles de mártires por hacerlo. Raqqa tampoco es una ciudad kurda. Nuestras fuerzas, nuestras ideas y nuestros objetivos unieron a personas de todos los componentes y protegimos juntos todo el norte y el este de Siria.

Usted ha dicho que algunos puntos se han debatido en las conversaciones de integración, pero aún no se han puesto en práctica. Nos gustaría preguntarle sobre la situación de las YPJ en este contexto. Algunas fuentes han afirmado que el Gobierno de transición está dispuesto a permitir que las YPJ se unan al ejército como brigada especial. Otras afirmaciones sugieren que Estados Unidos ha respaldado la posición de las SDF sobre la integración de las YPJ. ¿Son ciertas estas afirmaciones? ¿Y qué puede decirnos sobre las condiciones de las YPJ para participar en el nuevo ejército?

Desde la caída del régimen hasta hoy, las fuerzas de la Coalición han desempeñado un papel mediador.

Nadie puede negarlo. Se han celebrado muchos diálogos con su mediación. Pero estamos en la mesa gracias a nuestros propios logros. Nuestros éxitos, nuestra fuerza y nuestro poderío, el esfuerzo de esta sociedad… Sin eso, no estaríamos en estas negociaciones. Durante años, hemos mantenido una relación con la Coalición en el contexto de nuestra lucha conjunta contra el ISIS. Esto ha creado una verdadera amistad y comprensión. Pero los logros de esta revolución son los que nos han llevado a la mesa.

Nosotros, como YPJ en particular, estamos presentes en las negociaciones gracias a lo que hemos logrado. Todos nos decían que no sería posible, que no nos aceptarían. Pero no estamos negociando a título personal. Traemos con nosotros los logros de una revolución. Los que se sientan frente a nosotros pueden verlo. Por esta razón, y tal vez ya lo haya dicho antes, el cambio es una condición de nuestro tiempo. Este régimen tiene que cambiar. Ahora, todo el mundo nos pregunta si nos han aceptado porque estamos en la mesa. Sin esta experiencia, sin estos logros, ni siquiera habríamos llegado a la sala. No creemos que merezcamos estar en la mesa solo por ser mujeres. Pero si formamos parte de esta revolución, ¿por qué no íbamos a formar parte de las negociaciones? Hemos participado desde el principio hasta el final. Es un derecho perfectamente natural. No quiero entrar en el tema de las brigadas y las divisiones, porque eso es una conversación, no un acuerdo. No sería apropiado que dijera nada concreto ahora. Pero hemos planteado la idea de que las YPJ deben mantener su autonomía. Hoy en día, ni siquiera estamos totalmente integradas en las SDF. Por supuesto, cuando hay un interés general, si esta tierra es atacada, trabajaremos juntas para servir a nuestro pueblo. Pero, por lo demás, tenemos nuestro propio mando, nuestros propios centros, nuestras propias instituciones, y nos organizamos y educamos dentro de ellas. De esta manera, protegemos nuestra autonomía. Las que toman las decisiones y los cambios institucionales en nuestras fuerzas son el Mando de las Mujeres. El Mando General de las SDF no puede cambiar esto. El general Mazlum puede ser el comandante general de las SDF, pero no puede obligarme a hacer nada. No puede hacer ningún cambio en nuestras fuerzas femeninas ni enviarme a un puesto diferente. ¿Quién puede hacerlo? El Mando de las Mujeres. Esto significa que protegemos nuestra autonomía y libertad. Todo el mundo tiene que saberlo. Nuestra opinión como YPJ es que debemos defender este estatus. Debemos tener un lugar en el sistema militar. Nos organizamos tanto horizontal como verticalmente. Por ejemplo, también tenemos una fuerza social, nos organizamos en la vida civil. Existimos como una fuerza autónoma dentro de la estructura de las SDF, pero también hay mujeres en unidades de las SDF que no pertenecen a la YPJ; no es un ejército solo para hombres. Durante trece años hemos defendido este país, pero nadie en Homs, Hama, Suwayda o la costa había oído hablar de nosotras. Todo el mundo fuera de Siria, en Estados Unidos, Rusia, Europa, sabía que existía la YPJ, pero, por desgracia, dentro de Siria, las mujeres sirias no nos conocían. Pero ahora que el régimen ha caído, las mujeres de todas las partes de Siria pueden vernos y muchas quieren organizarse como nosotras. Por lo tanto, las YPJ se protegerán a sí mismas como una fuerza femenina autónoma en el noreste de Siria. Cuando lleguemos a un acuerdo con Damasco, las YPJ podrán desempeñar un papel en toda Siria. Pero mantendremos nuestro estatus especial. No renunciaremos a nuestra existencia ni a nuestra organización. La necesidad de autodefensa no desaparece solo porque nos acerquemos a la paz. Quizás no volvamos a enfrentarnos al mismo enemigo, pero podría haber ataques. Hay que estar preparadas. Especialmente las mujeres: las mujeres no pueden permitirse prescindir de la capacidad de autodefensa, ni en tiempos de guerra ni en tiempos de paz. Esta es nuestra opinión como YPJ.

Usted misma ha participado en las conversaciones de integración con Damasco. Muchos altos funcionarios del gobierno de transición provienen de un entorno islamista radical, mientras que usted representa un movimiento radical por la autodeterminación y la liberación de las mujeres. ¿Cómo se dirigen a usted y a otras mujeres líderes de las delegaciones de DAANES y SDF? ¿Cree que la experiencia de negociar con mujeres de DAANES y SDF podría estar cambiando su opinión sobre el papel de la mujer en la nueva Siria?

Están tratando de cambiar su imagen. Como resultado, cuando se relacionan con nosotras, no ocurre nada inusual. Todo se desarrolla dentro del protocolo normal. Cuando les saludamos, por ejemplo, algunas nos dan la mano y otras no. A partir de esto, como mujer, se puede entender que provienen de un entorno bastante estricto. Sin embargo, en última instancia, hay un enfoque muy pragmático que tiene un impacto en las discusiones y en la situación general. Se puede observar un ablandamiento en su retórica cuando discutimos temas con ellos. Pero en la práctica, cuando nada cambia, se puede ver su radicalismo. Nos han hecho muchas peticiones que hemos cumplido. Más recientemente, en lo que respecta a la integración militar, les presentamos nombres e ideas. En los medios de comunicación, nos acusan de retrasar las conversaciones. Pero, en realidad, son ellos los que ralentizan las negociaciones y se niegan a responder a nuestras propuestas. Si este Gobierno puede creer en la existencia de todas las religiones, lenguas y comunidades de Siria, si puede darse cuenta de que este pluralismo existe, entonces Siria puede ser un país democrático. Muchos sirios árabes suníes, que son la mayoría del país, tampoco aceptan esta mentalidad excluyente. No es solo una cuestión de minorías religiosas o étnicas. Si el Gobierno de transición puede cambiar y aceptar las realidades del siglo XXI y las necesidades de la sociedad, Siria vivirá en paz. Si no puede cambiar, solo verá crisis mayores. Voy a decir algo importante aquí: este Gobierno no es completamente independiente. Hay muchos países extranjeros que quieren influir en las conversaciones de integración. No quiero nombrarlos aquí. Si Siria quiere ser un país para todos los sirios, estas fuerzas extranjeras deben dejar de intentar influir en las negociaciones. Dejemos que el gobierno de transición comparta sus propias opiniones, libre de la influencia de opiniones externas. Está claro que el gobierno está bajo la presión de fuerzas extranjeras. Sin esto, un acuerdo podría haber sido más fácil. Nosotros [los predecesores de las Fuerzas Democráticas Sirias y el Gobierno de transición] luchamos unos contra otros en 2012 y 2013, pero hoy estamos dialogando. Esto no es algo nuevo en el mundo. Quienes libran las guerras más brutales entre sí se unen para hacer la paz. En muchos países europeos, como Suiza, conviven muchos pueblos, y cada uno de ellos tiene sus derechos. A veces pueden ser menos de un millón, pero obtienen sus derechos de todos modos. ¿Por qué no podría Siria hacer lo mismo? ¿Qué daño causaría que lo hiciera imposible? Este Gobierno debe escuchar la voz del pueblo, no las influencias extranjeras. De esta manera, podremos construir juntos una Siria pacífica y democrática.

Muchas personas aquí dicen que Jabhat al-Nusra se negó a hablar con las combatientes de las YPJ durante los enfrentamientos y negociaciones de 2012-2013 a los que usted alude; al parecer, exigían negociar con hombres. ¿Qué puede decirnos al respecto?

Sí, es cierto, en aquel entonces no querían hablar con nosotras. Ahora, debido a todo lo que ha cambiado, tienen que hacerlo. Pero, ¿sabes?, incluso en 2012, cuando estaba en Afrin, me senté con ellos en más de una ocasión. Era en secreto, por supuesto, pero mantuvimos un diálogo, aunque al final ellos preferían hablar con hombres.

¿Hay algo más que quieras añadir?

 En cualquier país, revolución o proceso de paz, si las mujeres no están presentes, no es posible encontrar una solución. Nuestra revolución lo demostró. Las mujeres que no podían salir de sus casas sin permiso ahora pueden dedicarse a la política, la diplomacia y el trabajo cultural. Esta libertad no existía antes. Pero nuestra mentalidad y nuestro sistema crearon una confianza y una convicción reales. El liderazgo de las mujeres es el aspecto de esta revolución que más interés suscitó. Tanto en la guerra como en la diplomacia, si las mujeres organizadas no están presentes, no llegaremos a una solución. El siglo XXI será el siglo de las mujeres, y las soluciones a sus problemas se pueden encontrar con el liderazgo de las mujeres. En un lugar donde las mujeres pueden organizarse y liderar, el éxito es posible. Pero los lugares donde se niega la existencia, las voces y las opiniones de las mujeres se encaminan hacia la destrucción.

Nuestra revolución ha alcanzado hoy un cierto nivel. Mañana podrían cambiar muchas cosas. Podría existir con un nombre diferente o un sistema diferente. Nuestros objetivos no cambiarán, pero muchas cosas que han existido hasta hoy podrían ser muy diferentes. Porque este proceso, este momento, este siglo es una época de cambios. Pero lo importante es que no nos desviemos del camino de quienes defendieron la democracia, el pluralismo y todos nuestros valores.

Como matar de cárcel a un anarquista: el caso del compa Yorch

Este articulo se escribió en italiano para darle difusión en aquella geografía, porque consideramos dramáticamente emblemático el caso de persecución contra el compañero anarquista Yorch. Le tocó a él, pero podría tocar a cualquiera que hace de la lucha un camino “otro” ante la horrorosa y explotadora normalidad capitalista. Proponemos el mismo articulo en español, para su mayor difusión. ¡Yorch vive, la lucha sigue!

Guerra afuera, guerra adentro, guerra por doquier

En varias ocasiones como colectivo hemos intentado proponer y escribir un análisis del México que vivimos cotidianamente, y no sólo, basándonos en el concepto de guerra, como instrumento de destrucción, acumulación y gestión del presente en clave capitalista. Una guerra que asume formas y tiempos enloquecidos y frenéticos, pero lleva consigo un común denominador: el ataque a la vida, a través del horror y el dominio de la violencia, del genocidio de masa a las fosas clandestinas del narco-estado, pasando por la desaparición forzada y el terror como método de domínimo de los territorios, terminando en un siempre más oprimente tecno-control social direccionado a la aniquilación de cualquier forma de resistencia o alteridad. La vida, debe de ser optimizable y manipulable, sino es considerada inútil, según el paradigma vigente y ya establecido sin ningún tipo de pudor. Una gran parte de la humanidad es considerada sacrificable, no solo a través de las guerras en campo, armadas y dirigidas a distancia hacia el “sur global” o el “otro de Occidente” (Palestina, Siria, Ucrania, Sudan, República Democrática del Congo, Yemen, Venezuela, Colombia y muchos otros territorios), pero también al interno de los Estados Nación y sus meandros administrativos: lxs que no se alinean, que luchan, que no se acoplan, no se venden y no están disponibles, las alteridades todas, se vuelven víctimas reales de una guerra interna. La cárcel y la represión, en este esquema, son los instrumentos fundamentales de la gestión y de la reconversión de la vida misma en clave capitalista y sus políticas de seguridad. No hay ningún derecho, ninguna justicia escrita o constitución nacional, ninguna ética formal, con la capacidad de parar esta máquina devoradora. 

El caso del compañero Yorch. El primer arresto

El compañero anarquista Jorge Emilio Esquivel Muñoz, apodado “El Yorch”, artesano y cocinero, prisionero político, fue asesinado el pasado 9 de diciembre por esta máquina, en las patrióticas celdas del Estado mexicano en la Ciudad de México. Años de un secuestro e innumerables violencias y omisiones por parte del sistema penitenciario, le arrancaron la vida. Una historia terrible que nos provoca una intensa rabia y una profunda tristeza. En la Ciudad de México estandarte de la 4T morenista, a la espera del Mundial, de un proyecto político y económico extractivista basado en el despojo de la ya saqueada ciudad por el mercado inmobiliario, no hay espacio para una vida que se escapa de los márgenes del trabajo y la producción. La vida de Yorch, estaba empapada de cultura punk y autogestión, en el auditorio ocupado Che Guevara, una de las pocas ocupaciones políticas todavía vivas en la Ciudad de México, espacio anarquista al interno de la Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM). Un espacio que Yorch vivía y hacía vivir cotidianamente antes de ser arrestado y asesinado. 

No fue la suerte la que mató a Yorch, sino una conspiración y una historia de violencia e injusticia por parte del Estado y de la tan renombrada y prestigiosa UNAM.

Yorch fue secuestrado en una violenta emboscada el 24 de febrero de 2016, cerca del campus universitario de la UNAM, al término de un evento cultural en el Okupa Che, donde fue capturado y subido a una furgoneta sin matrícula por unos 15 hombres vestidos de civil. Sobre la base de acusaciones inventadas y una denuncia anónima falsificada, Yorch fue acusado por la Procuraduría General de la República (PGR) de tráfico de drogas después de que le ocultaran una gran cantidad de drogas diferentes en una mochila que le atribuyeron (mochila que nunca aparece durante su captura en los vídeos de las cámaras de vigilancia, cuyas pruebas demostraron que no contenían sus huellas dactilares). Juzgado por el delito de posesión de drogas, fue trasladado primero a la prisión federal de Miahuatlán (Oaxaca) y luego a la prisión de máxima seguridad de Hermosillo (Sonora), a miles de kilómetros de distancia entre el sur y el norte del territorio federal mexicano, en un intento de complicar su defensa legal y romper la solidaridad y el apoyo de sus compañer@s. En marzo del mismo año fue puesto en libertad bajo fianza, con una reducción del delito a simple posesión de drogas. Sin embargo, continuaron las amenazas, la estigmatización mediática y una campaña de criminalización en su contra, incluso por parte de círculos internos de la universidad, llegando a acusarlo de pertenecer al crimen organizado o incluso a declararlo muerto en un enfrentamiento armado entre bandas.

La segunda detención

La historia se repite tristemente. La noche del 8 de diciembre de 2022, cinco personas vestidas de civil siguen a Yorch desde el Okupa Che a la salida de la UNAM y, junto con otras doce personas, también vestidas de civil, lo secuestran de nuevo con tres coches sin matrícula y un coche de la policía local del distrito de Coyoacán, sin ninguna orden de detención ni comunicación de los motivos de su detención. Trasladado al centro penitenciario Oriente de Ciudad de México, la PGR presenta un recurso y restablece los cargos de 2016. Encarcelado preventivamente durante 18 meses, en junio de 2024 Yorch es condenado injustamente a 7 años y seis meses de prisión. El proceso se caracteriza por continuos retrasos y cancelaciones, incluida la nueva presentación de las pruebas en noviembre de 2023. Posteriormente, la pena se fija en 5 años y 100 días de multa. No vivirá lo suficiente para cumplirla.

Represión contra Okupa Che

La criminalización pasa aquí por la detención arbitraria y la fabricación de delitos contra Yorch, una forma de condenar su vida, su activismo dentro de la Okupa Che, así como un ataque directo al espacio anarquista y a su existencia política. De hecho, ya en años anteriores, la Okupa Che ha sido objeto de diversos ataques por parte de porros (grupos de matones organizados y pagados por la Universidad cuyo objetivo es provocar y agredir a los movimientos estudiantiles y las luchas sociales) y constantemente acosada, espiada y controlada por los guardias de seguridad privada de la UNAM. Un modus operandi histórico y eficaz para el gobierno de la Ciudad de México, que utiliza constantemente la fabricación de delitos para desmantelar y criminalizar los movimientos sociales políticos radicales, como ocurrió recientemente en el caso de algunas compañeras durante el desalojo de la ocupación Okupa Cuba en 2022.

De la cárcel a la tumba

Durante los años de reclusión entre los penitenciarios Oriente y Sur, la cárcel y su entorno minan la salud de Yorch. Es torturado, aislado y castigado en varias ocasiones, lo que agrava un progresivo deterioro de su salud a partir de una apendicitis no tratada desde hace tiempo; tal y como han denunciado en repetidas ocasiones sus familiares y compañer@s, Yorch nunca recibió atención médica concreta. A pesar de presentar síntomas graves, el centro sanitario penitenciario se limitó a administrarle analgésicos básicos como el paracetamol. La situación llegó a un punto extremo con problemas neurológicos muy graves que le impedían respirar por sí mismo. Solo después de varias presiones, el 1º de noviembre de 2025 fue trasladado al Hospital General de Topilejo, donde ingresó en un estado avanzado de deterioro debido al largo período de negligencia y a los efectos que el criminal sistema penitenciario y judicial tienen sobre la salud de todas las personas presas, y más aún en este caso, donde la violencia del Estado y de la UNAM orquestaron la represión contra él. En las últimas semanas, Yorch vagó de un lugar a otro sin que las autoridades penitenciarias y hospitalarias proporcionaran información precisa sobre su estado. Solo al final, las personas solidarias y que estaban a su lado supieron que había sido intubado. La situación de Jorge Emilio Esquivel era, por desgracia, irreversible, su cuerpo estaba agotado y el 9 de diciembre de 2025, el compañero Yorch falleció.

Una advertencia contra tod@s l@s rebeldes

Su muerte es, a todos los efectos, un asesinato ejemplar y brutal, un mensaje dirigido a la comunidad anarquista y a quienes intentan resistir en esta monstruosa metrópolis y en este México en guerra. La sociedad carcelaria, la arrogancia autoritaria, la falta de atención médica y el Estado mataron a Jorge, como a tantos otros compañeros antes que él en la historia de los oprimidos. Si, por un lado, la brutalidad del Estado capitalista a la hora de eliminar a sus enemigos y las vidas improductivas no es nada nuevo, por otro, con profunda rabia, consternación y tristeza, nos despedimos de un compañero, con la promesa de no olvidar un crimen de Estado. Nos despedimos de Yorch y de lo que representaba por última vez, este miércoles 10 de diciembre de 2025, en el cementerio de San Juan Iztapalapa, en la Ciudad de México.

Consideramos muy grave que un compañero, un preso político, muera en las cárceles de esta manera, tras años de reclusión y negligencias médicas reiteradas, sin que ninguna institución asuma la responsabilidad de lo sucedido. Porque la guerra contra la vida es tan necesaria y está tan avanzada, que matar de inanición a un punk anarquista en prisión pretende ser la nueva normalidad que se utilizará como advertencia para aquellas «otras vidas» inútiles, sobrantes, para el Estado capitalista y sus paradigmas de necesidad.

Y es la misma historia gravísima que comparte el horror y la tragedia de la violencia institucional y la guerra total contra la vida, mecanismo cotidiano que se da hoy en México, lo que en algunas ocasiones hemos definido como “guerra de fragmentación territorial”, cuyo saldo nos habla de más de medio millón de muertos asesinados y 130,000 desaparecidos en 19 años. Sólo que esta vez no hay ningún cártel ni grupo criminal detrás del cual esconderse, ninguna operación especial en nombre de la seguridad que interponer. Solo hay la violencia institucional y penitenciaria más siniestra, destinada a destruir horizontes de vida diferentes, como el de Jorge y su mundo rebelde.

La criminalización continua y capilar de los movimientos sociales y de los compañeros es simplemente otra arma, la enésima, a través de la cual el gobierno mexicano sigue alimentando el negocio y la retórica de la guerra, de la que se benefician políticos, mafiosos y empresarios, mientras que comunidades enteras, urbanas y rurales, en resistencia, son desgarradas por la violencia que está devorando este país.

Un muerto más, un compañero menos, un nombre que se convierte en cifra, como para cada desaparecid@, para cada campesin@ oprimid@, para cada marginad@ metropolitan@, para cada pres@ en las cárceles, para cada mujer asesinada, para cada migrante asesinado en las mil fronteras de este México. Jorge es la enésima víctima inaceptable de un capitalismo que mata para acumular y expandirse cada vez más ferozmente.

La llama aún arde

Ahora queda la tarea más grande y complicada: expresar la venganza en clave social, convertir el dolor en lucha, organizar la resistencia y luchar para que lo que sufrió Jorge no lo sufra nunca más nadie.

Abrazamos con solidaridad y cariño a los amig@s y compañer@s cercan@s a Yorch, a la banda del Okupa Che, la comunidad anarkopunk chilanga, l@s compañer@s anarquistas de la ciudad de México y a todos los que acompañaron a Yorch tanto en su vida en libertad como en la de recluso. Miramos con desprecio, horror y rechazo a las instituciones inhumanas que violaron su cuerpo, la cárcel y sus malditos muros, el gobierno de la Ciudad de México y las autoridades de la UNAM, que mataron a Jorge por ser punk, anarquista y rebelde.

Que la memoria de Yorch permanezca viva en todos los lugares de lucha.

Que se multipliquen las acciones solidarias en todas partes.

Con amor y rabia.

Que la tierra te sea leve, compa Yorch.

Nodo Solidario (Italia/México)

GUERRA ALLA VITA: FAR MORIRE DI CARCERE L’ANARCHICO YORCH

Guerra fuori, guerra dentro, guerra ovunque

Più volte come collettivo abbiamo scritto e cercato di proporre un’analisi del Messico odierno, e non solo, basata sul concetto della guerra, come strumento di distruzione, accumulazione e gestione del presente in chiave capitalista. Una guerra che assume forme e tempi disparati, ma che ha sempre un comune denominatore: l’attacco alla vita, in una riconversione e stracciamento di quest’ultima, attraverso l’orrore e il dominio della violenza, dal genocidio di massa fino alle fosse clandestine del narco-stato, passando per la sparizione forzata e il terrore come metodo di gestione dei territori, culminando in un sempre più opprimente tecno-controllo sociale volto all’annientamento di qualsiasi forma di resistenza o alterità. La vita, deve essere ottimizzabile e manipolabile, altrimenti è inutile, secondo un paradimga vigente ormai sdoganato senza pudori. Una parte consistente di umanità è considerata quindi sacrificabile, non solo attraverso le guerre guerreggiate, armate e comandate da remoto verso il “il sud-globale” o “l’altro dall’occidente” (Palestina, Siria, Ucraina, Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Yemen, Venezuela, Colombia, e molti altri luoghi), ma dentro i confini territoriali degli stati nazionali e nei meandri amministrativi degli stessi: chi non si allinea, chi lotta, chi non si adagia, chi non è disponibile, chi è alterità, diventa vittima reale di una guerra interna. Il carcere e la repressione, in questo schema, sono lo strumento fondamentale della gestione e della riconversione della vita stessa in chiave capitalista e securitaria. Non c’è alcun diritto che tenga, nessuna giustizia scritta o costituzione nazionale, nessun etica formale, in grado di frenare questa macchina divoratrice. 

Il caso del compagno Yorch, il primo arresto

Il compagno anarchico Jorge Emilio Esquivel Muñoz, chiamato “El Yorch”, artigiano e cuoco, prigioniero politico, è stato assassinato lo scorso 9 dicembre da questa macchina, nelle patrie galere dello Stato messicano a Città del Messico. Anni di sequestro e una serie di violenze e omissioni da parte del sistema penitenziario, gli hanno strappato la vita. In una storia schifosa che provoca un’enorme rabbia bruciante, una tristezza nel doverlo nominare al passato. Nella Città del Messico vessillo della 4T morenista (quindi “progressista”), all’ombra di un Mondiale calcistico in arrivo, di un progetto politico ed economico estrattivista basato sul dominio culturale e sull’esproprio territoriale in nome del turismo e profitto immobiliare urbano, non c’è spazio per una vita fuori dai canoni del lavoro e della produzione. La vita di Yorch, infatti, era fatta di cultura punk e autogestione attorno all’Auditorio Occupato Che Guevara, una delle poche occupazioni politiche ancora viventi in Città del Messico, spazio anarchico all’interno dei confini universitari della Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM). Uno spazio che Yorch viveva e animava prima di essere arrestato ed eliminato.

Non è stato nessun destino a far morire Yorch, ma un complotto e una storia di violenza e ingiustizia da parte dello Stato e della tanto nominata e prestigiosa UNAM. 

Yorch è stato sequestrato in un agguato violento e armato il 24 febbraio 2016, nei pressi del Campus Universitario dell’UNAM, al termine di un evento culturale all’Okupa Che, preso e caricato su un furgone senza targa da circa 15 uomini in vestiti civili. Sulla base di accuse inventate e di una denuncia anonima falsificata, Yorch è stato imputato da parte della Procuraduría General de la República (PGR) di traffico di stupefacenti dopo che gli è stata nascosta una grande quantità di droghe diverse in uno zaino a lui attribuitogli (zaino che non appare mai durante la sua cattura nei video delle telecamere di sorveglianza, le cui le prove hanno dimostrato non riportare le sue impronte digitali). Processato per il reato di possesso di droga, è stato spostato tra il carcere federale di  Miahuatlán (Oaxaca) prima, e quello di massima sicurezza a Hermosillo (Sonora) dopo, a distanza di migliaia di chilometri tra sud e nord del territorio federale messicano, nel tenativo di complicare la sua difesa legale e di spezzare la solidarietà e la vicinanza da parte dell@ compagn@. Nel marzo dello stesso anno è stato rilasciato su cauzione, con una riduzione del reato a semplice possesione di droga. Continuano però le minacce, la stigmatizzazione mediatica e una campagna di criminalizzazione nei suoi confronti, da parte anche di ambienti interni all’università, arrivando ad accusarlo di appartenere alla criminalità organizzata o addirittura di dichiararlo morto in uno scontro armato tra bande.

Il secondo arresto 

La storia tristemente si ripete. La sera dell’8 dicembre 2022, cinque persone vestite da civili seguono Yorch dall’Okupa Che all’uscita dell’UNAM e, assieme ad altre dodici persone, anch’esse in abiti civili, lo sequestrano nuovamente con tre automobili senza targa e una auto della polizia locale del distretto di Coyoacán, senza ovviamente alcun ordine di arresto né comunicazione della motivazione per la sua detenzione. Portato al penitenziario Oriente di Città del Messico, la PGR presenta ricorso e ripristina le accuse del 2016. Incarcerato preventivamente per 18 mesi, nel giugno 2024 Yorch viene condannato ingiustamente a 7 anni e sei mesi di reclusione. Il processo è caratterizzato da continui ritardi e cancellazioni, compresa la ripresentazione delle prove nel novembre 2023. In seguito, la pena si assesta a 5 anni e 100 giorni di multa. Non vivrà abbastanza per scontarla.

Repressione contro la Okupa Che

La criminalizzazione qui passa attraverso l’arresto arbitrario e la fabbricazione di reati contro Yorch, una maniera per condannare la sua vita, il suo attivismo all’interno dell’Okupa Ché, nonché un attacco diretto allo spazio anarchico e alla sua esistenza politica. Infatti, già negli anni passati l’Okupa Che è stato oggetto di divesi attacchi da parte di porros (gruppi di picchiatori organizzati e pagati dall’Università il cui obiettivo è quello di provocare e aggredire i movimenti studenteschi e le lotte sociali) e costantemente vessato, spiato e controllato dalle guardie della sicurezza privata dell’UNAM. Un modus operandi storico ed efficace per il governo della Città del Messico, che utilizza costantemente la fabbricazione di reati falsi per smantellare e criminalizzare i movimenti sociali politici radicali, come successo recentemente nel caso di alcune compagne durante lo sgombero dell’occupazione Okupa Cuba nel 2022.

Dalla prigione alla tomba

Durante gli anni di reclusione tra penitenziario Oriente e Sur, il carcere e il suo mondo logorano la salute di Yorch. Viene torturato, isolato e punito in diverse occasioni, aggravando un progressivo deterioramento della salute a partire da una appendicite non curata da tempo; come denunciato più volte da familiari e compagn@, Yorch non ha mai ricevuto attenzioni mediche concrete. Nonostante presentasse sintomi gravi, la sanità penitenziaria si è limitata a somministrargli analgesici di base come il paracetamolo. La situazione è arrivata a un punto estremo con problemi neurologici gravissimi che gli impedivano di respirare da solo. Solo dopo diverse pressioni, il 1° novembre 2025 è stato trasferito all’Ospedale Generale di Topilejo, dove è stato ricoverato in uno avanzato stato di deterioramento dovuto al lungo periodo di negligenza e agli effetti che il criminale sistema carcerario e giudiziario comportano sulla salute di tutt@ le persone prigioniere, e ancora di più in questo caso, dove la violenza dello Stato e dell’UNAM hanno orchestrato la repressione contro di lui. Nelle ultime settimane, Yorch ha vagato da un posto all’altro senza che siano state fornite alcune informazioni precise da parte delle autorità penitenziarie e ospedaliere sulle sue condizioni. Solo all’ultimo, le persone solidali e al suo fianco hanno saputo che era stato intubato. La situazione di Yorch era purtroppo irreversibile, il suo corpo esausto e il 9 dicembre 2025, Yorch è venuto a mancare. 

Un monito contro tutt* i/le ribelli*

La sua morte è, a tutti gli effetti, un assassinio esemplare e brutale, un messaggio rivolto alla comunità anarchica e a chi prova a resistere in questa metropoli mostruosa e in questo Messico in guerra. La società carceraria, l’arroganza autoritaria, la mancanza di cure mediche e lo Stato hanno ucciso Jorge, come tanti altri compagni prima di lui nella storia degli oppressi. 

Se per l’appunto da un lato non è una storia nuova quella della brutalità dello Stato capitalista nell’eliminare i suoi nemici e le vite non produttive, dall’altro con profonda rabbia, sgomento e tristezza diamo addio un compagno, con la promessa di non dimenticare un crimine di Stato. Abbiamo salutato Yorch e ciò che rappresentava per l’ultima volta, questo mercoledì 10 dicembre 2025 nel cimitero di San Juan Iztapalapa a Città del Messico. 

Consideriamo molto grave che un compagno,un prigioniero politico, muoia dentro le carceri in questo modo, dopo anni di reclusione e negligenze mediche reiterate, senza che nessuna istituzione si prenda la responabilità di ciò che è successo. Perché la guerra alla vita è talmente necessaria e avanzata, che ammazzare di stenti un punk anarchico in prigione vuole essere la nuova normalità da usare come monito nei confronti di quelle “vite altre” inutili, in esubero, per lo stato capitalista e i suoi paridgmi di necessità. 

Ed è la stessa storia gravissima che condivide l’orrore e la tragedia della violenza istituzionale e della guerra totale alla vita, meccanismo quotidiano che si dà in Messico oggi, quello che più volte abbiamo definito in alcuni frangenti, come guerra di frammentazione territoriale, il cui saldo ci parla di più di mezzo milione di morti ammazzati e 130.000 desaparecidos in 19 anni. Solo che questa volta, non c’è nessun cartello o gruppo criminale dietro il quale nascondersi, nessun operativo speciale in nome della sicurezza da tirare in mezzo. C’è solo la violenza istituzionale e penitenziaria più bieca tesa a distruggere orizzonti di vita diversi, come quello di Jorge e del suo mondo ribelle.

La criminalizzazione continua e capillare  dei movimenti sociali e dei compagn@ è semplicemente un’altra arma, l’ennesima, tramite cui il governo messicano continua ad alimentare il business e la retorica della guerra, di cui politici, mafiosi e imprenditori traggono vantaggio, mentre intere comunità resistenti, urbane e rurali, sono dilaniate dalla violenza che sta divorando questo paese.

Un morto in più, un compagno in meno, un nome che si converte in cifra, come per ogni desaparecidxs, per ogni oppressx contadinx, per ogni marginatx metropolitanx, per ogni prigionerix nelle carceri, per ogni donna uccisa, per ogni migrante ammazzato nelle mille frontiere di questo Messico. Jorge è l’ennesima inaccettabile vittima di un capitalismo che uccide per accumulare ed espandersi sempre più ferocemente.

La fiamma ancora brucia

Ora, rimane il compito più grande e complicato: quello di esprimere la vendetta in chiave sociale, di convertire il dolore in lotta, di organizzare la resistenza e di battersi per far sì che quello che ha subito Jorge, non lo subisca mai più nessunx.

Abbracciamo con solidarietà e affetto gli amici e i compagni vicini a Yorch, la banda dell’Okupa Che, la comunità anarkopunk chilanga, i/le compagnx anarchichx della città del Messico e chiunque abbia accompagnato Yorch tanto nella sua vità in libertà, quanto in quella da recluso. Guardiamo con disprezzo, orrore e rifiuto le istituzioni disumane che hanno violato il suo corpo, il carcere e le sue mura maledette, il governo della Città del Messico e le autorità della UNAM, che hanno ammazzato Jorge per il fatto di essere punk, anarchico e ribelle.

Che resti viva la memoria di Yorch in ogni luogo di lotta.  

Che si moltiplichino le azioni in solidarietà in ogni dove.

Con amore e rabbia.

Che la terra ti sia lieve, Yorch.

Nodo Solidale

Semillas que brotan en el infierno

Proponemos un segundo artículo de la pagina web en italiano Il Rovescio como aportación al análisis de la guerra permanente del capitalismo y su forma colonialista. El texto analiza el colonialismo de asentamiento histórico mirándolo a través del genocidio en Gaza. Traducción de Nodo Solidale.

Vladimir Žabotinskij, fundador de la organización paramilitar sionista Irgun, lo admitía sin rodeos: «[Los palestinos] miraban a Palestina con el mismo amor instintivo y el mismo fervor con que cualquier azteca miraba a su México o cualquier sioux miraba a su pradera». El colonialismo sionista ha hecho todo lo posible por borrar esos paralelismos históricos. Pero el horror de Gaza nos permite ver en directo —equipados con todos los medios que el complejo científico-militar-industrial ha desarrollado entretanto— el exterminio de los nativos americanos o de los aborígenes de Australia.

Por eso es tan vertiginoso como necesario elaborar y poner en práctica una concepción de la historia more Gaza demonstrata.

Tomemos la conocida frase del historiador Patrick Wolfe (a quien debemos algunos de los estudios más precisos sobre el colonialismo de asentamiento): «La invasión colonial de una tierra para crear asentamientos es una estructura, no un acontecimiento». (De lo que se deduce el corolario: «La eliminación de los nativos es un principio organizativo»). Esta estructura hace que en 2025 siga siendo operativa la justificación jurídica de la expropiación colonial proporcionada en 1689 por John Locke (Segundo tratado sobre el gobierno): el propietario de la tierra no es quien reside en ella, sino quien la aprovecha. Definir como tierra de nadie (terra nullius) los entornos habitados por las poblaciones nativas es la piedra angular del asentamiento colonial. No se trata de un acontecimiento, precisamente, sino de una estructura. Tanto es así que las leyes sobre la terra nullius no fueron derogadas en Australia hasta 1992, cuando la tarea ya estaba prácticamente concluida. La expropiación no se llevó a cabo solo mediante la coacción física, sino también mediante contratos comerciales y tratados legales. Lo mismo ocurre con la colonización sionista: «La arquitectura de desplazamiento del régimen israelí utiliza muchos métodos diferentes, pero todos tienen un único objetivo: controlar la mayor cantidad de tierra posible manteniendo dentro la menor cantidad posible de palestinos, sin activar las alarmas internacionales, ya sea mediante la invención de «disputas inmobiliarias», la demolición de casas construidas «sin autorización», robando tierras y declarándolas «zonas militares», «yacimientos arqueológicos», «reserva natural» o «propiedad del Estado»; o simplemente frenando el crecimiento de las comunidades palestinas aislándolas y cortando sus vínculos económicos y sociales con las ciudades vecinas. El proyecto sionista ya ha creado las narrativas para legalizar y justificar la sustitución del nativo por el colono» (Mohammed El-Kurd, Vittime perfette e la politica del gradimento, Fandango, Roma, 2025). La famosa frase de Kafka —«las cadenas de la humanidad torturada están hechas de papel protocolo»— se aplica especialmente a las colonias. Es el soberano —en la era moderna, el Estado— quien decide quién es el legítimo propietario de la tierra. El Estado, producto y garante de la expropiación de tierras, revela precisamente en los colonialismos de asentamiento la relación de implicación recíproca entre la violencia extralegal y la extensión del imperio de la ley: la segunda consagra la primera, ocultándola. No es casualidad que el Estado sionista, único colonialismo de asentamiento que ha quedado inconcluso —una inconclusión que se llama resistencia palestina—, sea el único Estado del mundo que no tiene fronteras definidas. Cuanta más tierra se arrebata por la fuerza a los palestinos, más se expande el Estado israelí, con su jurisdicción correspondiente. «El colonialismo es el ladrón y, al mismo tiempo, el policía, que comete el delito y lo legaliza» (Mohammed El-Kurd). La relación que las leyes de Tel Aviv tienen con las acciones extralegales de los colonos contra los palestinos es la misma que las de Washington tenían con los robos y las matanzas cometidos por los cowboys contra los nativos americanos. Ni las «leyes fundamentales» de Israel ni la Constitución de los Estados Unidos admiten oficialmente el incendio de aldeas y la expulsión armada de sus habitantes por parte de ciudadanos particulares, pero lo que llamamos «Estado de Israel» y «Estados Unidos de América» no son más que la legalización de esas violencias. Cuanto más tiempo pasa, más se convierte el hecho consumado en un hecho jurídico. La diferencia entre los dos contextos es que, en el caso del sionismo, su «genocidio incremental» («la eliminación del nativo como principio organizativo») sigue en curso, mientras que la violencia contra los nativos americanos ha concluido, es decir, ha sido sancionada y ocultada.

El llamado «plan Trump» reconoce que el aliado sionista ha sufrido una amarga derrota (el intercambio de 2000 prisioneros palestinos por 20 prisioneros israelíes es la manifestación más inmediata y evidente). Así pues, el «principio organizativo» (anexionar la mayor cantidad de territorio palestino con la menor cantidad posible de palestinos) recurre a otros medios. Ese derecho legal de propiedad que suele servir para justificar a posteriori la expropiación violenta de tierras se convierte ahora en un requisito previo para futuras expropiaciones. He aquí, bien resumido, el mecanismo: «Las Naciones Unidas estiman que, después del 7 de octubre de 2023, casi dos millones de habitantes de Gaza han sido desplazados. En esencia, el 90 % de la población palestina ha tenido que abandonar sus hogares, o lo poco que queda de ellos. Para reclamar la propiedad de las tierras que han abandonado, deberían disponer de un título que los legitimara.

«El problema es que, en Palestina, especialmente en los territorios ocupados, el porcentaje de tierras e inmuebles debidamente registrados es, como mínimo, escaso. Israel siempre ha complicado los procedimientos de validación de los títulos de propiedad. […] El resultado es fácil de imaginar: los palestinos evacuados de Gaza y de otros territorios ocupados no podrán reclamar la propiedad de los terrenos seleccionados para la reactivación económica de la zona. […] Quizás los más disciplinados puedan servir en las mesas de los futuros complejos turísticos propiedad de los invasores» (Emiliano Brancaccio, Palestinos esclavos modernos: expropiados y convertidos en vagabundos, «il manifesto», 30 de septiembre de 2025).

Si queremos una imagen de brutal claridad sobre la relación entre la violencia y el derecho de propiedad, y sobre cómo el tecno-capitalismo borra la historia para imponer a los seres humanos vivir en una especie de obra permanente, aquí la tenemos: un poder construido en unas décadas anuncia la construcción de una «Nueva Gaza» sobre la milenaria que ha arrasado en veinticuatro meses.

El «plan de paz» está impulsado por la conciencia ubuesca de que la única manera de demoler incluso las ruinas es «equilibrarlas con edificios bonitos y bien ordenados». No solo complejos turísticos de lujo, sino también y sobre todo polos tecnológicos, gracias a los cuales transformar en un modelo internacional la «nación start-up»: el mundo-obra, el mundo-laboratorio. Como ha sido bien documentado (por ejemplo: https://merip.org/ 2025/10/the-military-backbone-of-normalization/), de hecho, la razón principal por la que casi todos los países árabes están a favor de este plan colonial y esclavista no es tanto y solo el negocio inmobiliario que se avecina, o una conveniencia política genérica, sino la voluntad de reforzar sus respectivos complejos científico-militares-industriales. Desde este punto de vista, la experiencia sobre el terreno de Israel en materia de vigilancia masiva, fusión civil-militar y guerra cibernética no tiene rival. Al reunir diferentes épocas en el mismo espacio-tiempo, el colonialismo inteligente actualiza continuamente las tres alianzas más funestas de la historia: «tinta, técnica y muerte» (Karl Kraus); «dinero, maquinaria y álgebra» (Simone Weil); «Estado, ciencia e industria» (Jean-Marc Royer). En un escenario de guerra mundial, de trastornos medioambientales y de políticas de «racionamiento» del acceso a bienes, servicios o zonas geográficas, todos los poderes quieren comprar un know-how similar. Mientras que el transhumanismo de derecha e izquierda quiere hacernos creer que se puede vivir en las nubes (cloud), Gaza pone al descubierto que el desarrollo tecno-militar es el brazo armado de la expropiación de la tierra, producto y al mismo tiempo gendarme de esa larga «guerra contra la subsistencia» (Ivan Illich) que es la modernidad capitalista industrial.

Mientras que en esa franja de tierra «se rompe el mito de la invencibilidad colonial», estar del lado de la resistencia palestina no significa situarse de forma autocomplaciente «en el lado correcto de la historia», sino elegir su parte maldita, sus «clases aniquiladas», sus «semillas capaces de germinar en el infierno».

«El eslogan Todos somos palestinos debe abandonar la metáfora y manifestarse materialmente. Porque Gaza no puede luchar sola contra el imperio. […] Somos, sin lugar a dudas, sujetos de conquista y colonización, pero también somos mucho más. En cada giro de nuestra sangrienta historia, hemos sido brutalizados, huérfanos de nuestros seres queridos, expropiados, exiliados, hambrientos, masacrados y encarcelados, pero nos hemos negado, para gran consternación del mundo, a someternos. Por cada masacre e invasión, ha habido y hay hombres y mujeres que empuñan armas, tanto artesanales como sofisticadas —cócteles molotov, rifles, hondas, cohetes— para luchar. Siempre ha habido lucha, siempre han florecido los jazmines» (Mohammed El-Kurd).

Del método Yakarta al método Gaza

Proponemos el primero de dos artículos de la pagina web in italiano Il Rovescio como aportación al análisis de la feroz fase actual e histórica del capitalismo, entendido como un sistema de guerra perenne. El texto fue escrito para lectores italianos, hay algunas referencias especificas a la historia de este país, sin embargo sentimos que su lectura aporta mucho para una mirada critica internacionalista. Traducción de Nodo Solidale.

Del Método Yakarta al Método Gaza

En 2021 se publicó en Italia, traducido por Einaudi, un libro importante que, al menos en los círculos subversivos, pasó prácticamente desapercibido. Se trata de Il Metodo Giacarta. La cruzada anticomunista de Washington y el programa de asesinatos en masa que han moldeado nuestro presente. En este texto, el periodista californiano Vincent Bevins demuestra, de forma amplia y precisa, que el golpe de Estado llevado a cabo en Indonesia en 1965 con el apoyo Estados Unidos fue un episodio central de la Guerra Fría porque representó, precisamente, un método.

Leer el libro de Bevins mientras se está llevando a cabo el genocidio del pueblo palestino elimina toda distancia histórica de la lectura, lanzándonos al presente.

El método Yakarta

«Entre 1954 y 1990 surgió en todo el mundo una red informal de programas anticomunistas de exterminio apoyados por Estados Unidos que cometió asesinatos en masa en al menos veintitrés países. No hubo un plan general, ni una sala de control en la que se orquestara todo, pero creo que los programas de exterminio en Argentina, Bolivia, Brasil, Chile, Colombia, Corea del Sur, El Salvador, Filipinas, Guatemala, Honduras, Indonesia, Irak, México, Nicaragua, Paraguay, Sri Lanka, Sudán, Taiwán, Tailandia, Timor Oriental, Uruguay, Venezuela y Vietnam estaban relacionados entre sí y desempeñaron un papel crucial en la Guerra Fría. (Y no incluyo las intervenciones militares directas ni a los inocentes que perdieron la vida en la guerra como «daños colaterales»). Los hombres que ejecutaron intencionadamente a disidentes y civiles indefensos aprendían unos de otros; adoptaban métodos ya aplicados en otros países; a veces incluso llamaban a sus operaciones como otros programas que querían emular. He encontrado pruebas que vinculan indirectamente la metáfora «Yakarta», tomada del mayor y más importante de estos programas, con al menos once países (doce, si tenemos en cuenta Sri Lanka, donde el Gobierno aplicó lo que denominó «solución indonesia»). Pero incluso los regímenes que nunca se vieron influenciados por este lenguaje particular habían visto muy claramente lo que había hecho el ejército indonesio y el éxito y el prestigio que sus acciones habían aportado a su país en Occidente. Y aunque algunos de estos programas se llevaron a cabo de forma deficiente y arrasaron con espectadores inocentes que no representaban ninguna amenaza, en realidad lograron eliminar a los verdaderos opositores al proyecto global liderado por Estados Unidos. Una vez más, Indonesia es el ejemplo más importante. Sin el exterminio del PKI [Partido Comunista Indonesio], el país no habría pasado de Sukarno a Suharto. Incluso en los países donde el destino de los gobiernos no estaba en juego, los asesinatos en masa mostraban lo que le sucedería a quienes se resistieran: una forma eficaz de terror de Estado que también se aplicó en las regiones circundantes. [] Quiero afirmar que esta red informal de programas de exterminio, organizada y justificada por principios anticomunistas, desempeñó un papel muy importante en la victoria de los Estados Unidos y que esa violencia ha influido profundamente en el mundo en el que vivimos hoy».

Una eficacia despiadada

«Indonesia se convirtió realmente en un «socio dócil y complaciente» de Estados Unidos, lo que explica por qué hoy en día tantos estadounidenses apenas han oído hablar de ese país. Pero en aquella época las cosas eran muy diferentes. La aniquilación del tercer partido comunista del mundo y el surgimiento de una dictadura fanáticamente anticomunista sacudieron violentamente a Indonesia y provocaron un tsunami que llegó a casi todos los rincones del mundo. A largo plazo, la forma de la economía global cambió para siempre. Además, la magnitud de la victoria anticomunista y la despiadada eficacia del método empleado inspiraron programas de exterminio que tomaron el nombre de la capital indonesia.

En pocas palabras

«Además, todos hemos tenido el capitalismo americanocéntrico que quería Washington. Basta con mirar a nuestro alrededor», dijo señalando su ciudad y todo el archipiélago indonesio que lo rodeaba.

¿Cómo ganamos?, pregunté.

Winarso se detiene: «Nos mataron».

Las cifras de una masacre

Por sí solo, el mapa titulado «Los programas de exterminio anticomunista, 1945-2000» y publicado como apéndice del libro de Bevins cuenta una historia tan feroz que simplemente deja atónito lo poco presente que está en la conciencia colectiva. Estos son los lugares, las fechas y las cifras:

México 1965-1982: 1300

Honduras 1980-1993: 200

Nicaragua 1979-1989: 50 000

Guatemala 1954-1996: 200 000

Venezuela 1959-1970: 500-1500

El Salvador 1979-1992: 75 000

Colombia 1985-1995: 3000-5000

Países miembros de la Operación Cóndor (la alianza anticomunista entre Argentina, Bolivia, Brasil, Chile, Paraguay y Uruguay), años setenta y ochenta: 60 000-80 0000

Irak 1963 y 1978: 5000

Irán 1988: 9000 («el único caso en el que la violencia fue perpetrada por un adversario geopolítico de los Estados Unidos»)

Sudán 1971: algo menos de 100

Sri Lanka 1987-1990: 40 000-60 000

Tailandia 1973: 3000

Corea del Sur 1948-1950: 100 000-200 000

Taiwán 1947: 10 000

Filipinas 1972-1986: 3250

Vietnam, Operación Fénix 1968-1972: 50 000

Timor Oriental 1975-1999: 300 000

Indonesia 1965-1966: 1 000 000

«Yakarta está llegando»

O simplemente «YAKARTA» son las inscripciones que, en 1972, aparecen en varias ciudades de Chile y que los militantes de izquierda reciben por correo. Los responsables de la operación son el grupo fascista Patria y Libertad y la sección chilena de la organización anticomunista brasileña Tradición, Familia y Propiedad —base social del golpe militar de 1964 en Brasil—, ambas financiadas por la CIA. El 11 de septiembre de 1973 se produce el golpe de Estado. Cuando miles de «rojos» son reunidos en el Estadio Nacional para ser interrogados, torturados y asesinados, los que presiden las operaciones son consejeros militares brasileños. La DINA, la feroz policía secreta de Pinochet creada por la CIA, asesina en pocos días a tres mil opositores.

La violencia contra los indígenas y los disidentes en Guatemala fue promovida por la Mano Blanca (una organización racista y ferozmente anticomunista) con el apoyo de los Boinas Verdes estadounidenses. «Entre 1978 y 1983, el ejército guatemalteco asesinó a más de doscientas mil personas. Aproximadamente un tercio de ellas, sobre todo en las zonas urbanas, fueron secuestradas y «desaparecidas». La mayoría de las demás eran indígenas mayas masacrados al aire libre en los campos y montañas donde sus familias habían vivido durante generaciones». En 1982 fueron exterminadas aldeas enteras. «En Indonesia, el asesinato en masa puede que no haya sido genocidio, sino solo asesinato en masa anticomunista. En Guatemala fue un genocidio anticomunista».

En 1979, para acabar con el Nicaragua sandinista, Estados Unidos desplegó a los contras, fuerzas anticomunistas financiadas por la CIA y entrenadas por Argentina, Guatemala y Chile como continuación de la Operación Cóndor (con la que «el fanatismo anticomunista conquistó el continente» latinoamericano). En una reunión organizada por el embajador de Estados Unidos en España, los equipos especiales argentinos y guatemaltecos siguen hablando del «Plan Yakarta».

¿Por qué «Yakarta»?

Operación Aniquilación

Operasi Penumpasan. Así se llama la operación lanzada el 8 de octubre de 1965 por el ejército indonesio contra los comunistas. En unos seis meses, un millón de personas son exterminadas y otras tantas son encerradas en campos de concentración. Preparado por la CIA desde 1958 siguiendo el modelo del golpe de Estado en Guatemala, el golpe del general Suharto reproduce hasta el más mínimo detalle la forma en que se impuso la dictadura en Brasil el año anterior. La ideología es la proporcionada por la «teoría de la modernización», según la cual, en determinados contextos, es el ejército el que debe eliminar por la fuerza todo lo que se opone a la modernización capitalista de un país. Es el ejército modernizador guatemalteco el que, en 1954, permite, mediante un golpe de Estado, asegurar el control de la producción agrícola a la United Fruit Company. Lo mismo ocurrirá con la ITT en el Chile del general Pinochet, así como, en 1976, tras el golpe de Estado del general Videla, en Argentina, donde «la empresa automovilística Ford y el Citibank colaboraron en la desaparición de trabajadores pertenecientes al sindicato». Pero el modelo que sigue el general Suharto para «erradicar de raíz» la presencia comunista (hablamos, entre el PKI, el sindicato de trabajadores, el frente campesino, la organización estudiantil y el Gerwani, es decir, el movimiento de mujeres, de algo así como diez millones de personas) se inspira, en las técnicas de propaganda, en las experimentadas por la CIA en el golpe de Estado de Brasil de 1964. Se inventa un plan secreto comunista para atacar al ejército y tomar el poder, con brujas comunistas que castran a los oficiales mientras duermen y luego bailan desnudas alrededor de los cadáveres mutilados. Se erige un monumento a los militares golpistas asesinados por los comunistas, se producen películas para proyectar oficialmente cada año y se transforma el día de las fuerzas armadas en la celebración de la aniquilación de los enemigos de la nación. El ejército se convierte en el centro organizativo de la modernización.

«Un año después de un golpe de Estado en la nación más importante de América Latina, inspirado en parte por una leyenda sobre soldados comunistas que apuñalan a generales mientras duermen, el general Suharto le cuenta a la nación más importante del sudeste asiático que los comunistas y los soldados de izquierda se llevaron a los generales de sus casas en medio de la noche para matarlos lentamente a puñaladas, y luego ambas dictaduras militares anticomunistas, alineadas con Washington durante décadas, celebran el aniversario de estas rebeliones de manera muy similar». A partir de 1958, la Fundación Ford organiza viajes de estudio a Estados Unidos para jóvenes oficiales indonesios, que reciben formación, entre un curso sobre la economía estadounidense y veladas en locales de “table dance”, en las bases militares de Kansas.

¿Eran Brasil en 1964 e Indonesia en 1965 países al borde de la revolución? En absoluto. En el primer caso, algunas tímidas reformas que no gustaban a los terratenientes; en el segundo, un gobierno que, con el congreso de Bandung de 1955, se puso al frente de los países que acababan de salir del juego colonial o que tenían intención de hacerlo, un gobierno —el de Sukarno— apoyado por los nacionalistas, los islamistas e incluso por el PKI, partido cuya estrategia era totalmente socialdemócrata. Países que no estaban lo suficientemente alineados con Washington y su guerra contra el comunismo. Bevins sostiene que los golpes de Estado en Brasil e Indonesia, con su efecto dominó, fueron los acontecimientos decisivos de la Guerra Fría, que no se libró tanto y solo con misiles nucleares y napalm, sino con políticas de exterminio en las colonias o excolonias. Hasta tal punto que la victoria de Estados Unidos en Indonesia (y en Timor Oriental, donde Suharto asesinó a un tercio de la población) compensó la derrota en Vietnam.

La diferencia entre Brasil e Indonesia es que, cuando, una vez alcanzada la modernización, terminaron las respectivas dictaduras militares, en el país latinoamericano la «reconciliación nacional» tuvo que hacer frente a los asesinados y los desaparecidos, mientras que el exterminio indonesio fue simplemente borrado, con toda una población literalmente embrujada. Una militante nonagenaria, superviviente de la detención y la tortura, le cuenta a Bevins que para los habitantes del barrio en el que vive sigue siendo una bruja comunista.

Silencio

«El objetivo de la violencia era su silencio. Las fuerzas armadas no supervisaron el exterminio de todos y cada uno de los comunistas, presuntos comunistas o simpatizantes comunistas del país: habría sido casi imposible, dado que aproximadamente una cuarta parte del país tenía alguna afiliación con el PKI. Una vez que las masacres se generalizaron, se hizo extremadamente difícil encontrar a alguien que admitiera tener alguna relación con el PKI.

Alrededor del quince por ciento de las personas capturadas eran mujeres. Fueron sometidas a violencias particularmente crueles y de género que se derivaban directamente de la propaganda difundida por Suharto con la ayuda de Occidente. Sumiyati, miembro de Gerwani, escapó de la policía durante dos meses antes de entregarse. La obligaron a beber la orina de sus torturadores. A otras mujeres les cortaron los pechos o les mutilaron los genitales; las violaciones y la esclavitud sexual eran prácticas generalizadas.

Las listas de personas a eliminar no solo fueron facilitadas al ejército indonesio por funcionarios del Gobierno de los Estados Unidos: algunos directivos de plantaciones de propiedad estadounidense proporcionaron los nombres de sindicalistas y comunistas «incómodos» que luego fueron asesinados.

[…] Estados Unidos contribuyó a la operación en todas sus fases, desde mucho antes del inicio de las masacres hasta que cayó la última víctima y el último preso político salió de la cárcel, décadas después, torturado, marcado por las cicatrices y perdido».

El método Gaza

Tras la caída de la URSS, el concepto de «comunismo» fue sustituido por el de «terrorismo». En la cruzada mundial «antiterrorista» que se desplegó sobre todo a partir de 2001, Israel desempeñó, como era de esperar, un papel crucial. Si bien el concepto de «terrorismo» se remonta a Babeuf, el paradigma operativo del rebelde como «terrorista» es, de hecho, típicamente colonial. Y la historia nos enseña que todo lo que se experimenta en las colonias —desde los bombardeos aéreos sobre civiles hasta la detención administrativa, desde las técnicas de tortura hasta la arquitectura de la ocupación— tarde o temprano vuelve. Los primeros campos de concentración (en sentido literal: campos de concentración) fueron creados por España en Cuba en 1896, replicados en Filipinas (por España y posteriormente por Estados Unidos) y luego en Sudáfrica por el Imperio Británico, hasta convertirse en el emblema mismo del nazismo. Los métodos empleados en Argelia serán enseñados por la policía militar francesa a las policías militares y secretas de Brasil, Guatemala, Chile, Argentina… La represión «anticomunista» más feroz de América Latina tiene lugar allí donde el enemigo de la nación y el salvaje anticivil se confunden: en Guatemala. Al igual que en la eliminación histórica del exterminio en Indonesia y Timor Oriental (donde se elimina a un tercio de la población), pesa el hecho de que los asesinados no fueran blancos.

El espacio intermedio entre las colonias y el territorio nacional son las zonas fronterizas. No es casualidad que la violencia fascista, en Trieste y sus alrededores, afectara primero a las poblaciones eslavas y luego a los italianos «rojos», con métodos a medio camino entre la expedición punitiva y las técnicas militares de guerra, y creó al «eslavo-comunista» como enemigo nacional, versión blanca del indígena maya-comunista de Guatemala (donde las prácticas de exterminio llevadas a cabo por el ejército guatemalteco se realizaron con el entrenamiento y la supervisión del ejército israelí). Y no es casualidad que los primeros en experimentar en carne propia, en la Italia de los años sesenta, la tortura como método militar fueran los secesionistas tiroleses (al frente de las operaciones contra ellos encontramos a los mismos personajes de la Oficina de Asuntos Reservados que planificó la masacre de Piazza Fontana). Si la legislación italiana «antiterrorista», desde 1980 en adelante, ha sentado precedente a nivel internacional (anticipándose a la europea de los años 2000) y la prisión de guerra 41 bis es hoy estudiada por el Estado chileno, no debe sorprender que los más acérrimos defensores de Netanyahu (los demás lo apoyan con mayor discreción) sean los exponentes de esa derecha anticomunista y antisemita heredera de la Guardia de Hierro filonazi (Orban), del Método Yakarta y de la Operación Cóndor (Bolsonaro y Milei) y del ejército como baluarte contra los maricones y los rojos (Vannacci). O los afrikaners, cuya potencia tecnológica confiere a su supremacismo una dimensión incluso cósmica (pensemos en Elon Musk y Peter Thiel).

Pero también la izquierda institucional ha recogido la enseñanza del Método Giacarta (no en vano Berlinguer justificaba el «compromiso histórico» refiriéndose explícitamente al golpe de Estado de Pinochet, como antes Togliatti justificó el «giro de Salerno», operado en obediencia a Moscú, para evitar una «situación a la griega», es decir, el enfrentamiento con la CIA), alineándose activamente —con cuestionarios, denuncias a la policía, la «línea de firmeza» en el caso Moro— con la represión «antiterrorista», hasta el inmundo eslogan «el proletariado salvará al Estado».

Es el colonialista quien define quién es el indígena; es el inquisidor quien establece quién es la bruja; es el supremacista blanco quien establece quién es el negro; es el antisemita quien define quién es el judío; es el sionista quien establece quién es el antisemita; es el anticomunismo quien establece quién es el comunista; es el antiterrorismo quien establece quién es el terrorista. Preguntarse por la sustancia social, política u ontológica de estas categorías de parias no solo es engañoso, sino que implica deslizarse por el terreno del poder acusador, de su propaganda y de su guerra psicológica.

Mientras asistimos al declive del imperio estadounidense, con las declaraciones de Trump sobre la anexión de Canadá y la conquista de Groenlandia, con los buques nucleares estadounidenses desplegados en el Indo-Pacífico y frente a Venezuela, y con el Pentágono rebautizado sin rodeos como Departamento de Guerra, debemos comprender que Gaza no es un horror contra el que reclamar desde abajo el respeto del Derecho internacional o la democracia, sino un método que resume toda una historia de masacres y que sirve de advertencia para todos los palestinizables del mundo.

La orden ya se ha dado

«Nos inspiramos en la estrategia de Haussmann para el París del siglo XIX», se lee en el documento Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation (GREAT). Como es sabido, el barón von Haussmann destruyó el antiguo París de callejuelas y calles estrechas (que facilitaban las barricadas y las insurrecciones) y lo reorganizó en amplios bulevares que facilitaban el paso de la caballería y el desplazamiento de las tropas por la zona urbana. Aún hoy, la arquitectura imperial es parte integrante de la contrainsurgencia, es decir, de la continuación del colonialismo en el espacio urbano. Sin destruir las calles, los túneles y la resistencia de Gaza, no se pueden construir los polos tecnológicos ni edificar, sobre decenas de miles de cadáveres, los hoteles de lujo. El terrorista, tanto en Palestina como en Occidente, es cualquier bárbaro que se oponga al destino manifiesto del imperio. El lenguaje cada vez más explícitamente religioso y «mesiánico» (mejor dicho, teocrático) nos informa de que cuanto más imposibles parecen los objetivos, más desmesurados y totales se vuelven los medios. Hoy en día, el Método Yakarta, dotado de todas las herramientas que el complejo científico-militar-industrial ha preparado entretanto, está encabezado por un promotor inmobiliario y respaldado por transhumanistas que disponen de todos los medios de poder para sus delirios. Lo más absurdo es explicarle al rey Ubu que es una locura pensar en deportar a dos millones de palestinos para construir una costa de lujo.

La solidaridad internacionalista con la resistencia palestina debe reforzarse con la conciencia de que algo similar ya ha ocurrido. Los hoteles y clubes de Bali, destino turístico y sexual de los blancos ricos de Occidente, se construyeron literalmente sobre la Operación Aniquilación (que solo en esa isla indonesia exterminó al cinco por ciento de la población, es decir, a ochenta mil personas). La arena sobre la que se construyeron los complejos turísticos y los clubes de playa donde «los blancos pueden permitirse comprar hospitalidad de lujo, o sexo, a la población local», es «la misma arena donde los militares llevaron a personas de Kerobokan, a pocos kilómetros al este, para matarlas durante la noche».

«Tenía que matar a los comunistas para que los inversores extranjeros pudieran traer aquí su capital», dice Ngurath Termana.

Que la revuelta que se está produciendo en Indonesia haga saltar por los aires esos complejos turísticos y la infame violencia sobre la que se construyeron.

Una creencia insostenible

En una entrevista concedida a «Jacobin Italia» poco después de la traducción al italiano de su libro, Bevins decía:

«No creo que esta historia haya terminado. Con el paso del tiempo, los temas de este libro han resultado ser más actuales de lo que me hubiera gustado, y el anticomunismo es un fantasma del pasado que puede resurgir en cualquier momento y con más fuerza aún. Aunque la hegemonía de Estados Unidos se ejerce a través de métodos diferentes y ha perdido poder frente a China, sigue siendo, con diferencia, el país más poderoso y no hay razones para creer que algo que ocurrió en el pasado no pueda repetirse. Es una especie de creencia automática que considero insostenible. Y puedo afirmarlo porque los chilenos y los indonesios pensaban exactamente lo mismo. Muchos de ellos me dijeron que si les hubiera preguntado un año antes de la masacre si era posible, habrían dicho que no. Por ejemplo, los chilenos pensaban: «No, vamos, estamos en los años setenta y no estamos en Guatemala o Indonesia, donde los generales matan a la gente». Bueno, yo creo que hay que estar siempre alerta, sobre todo porque el sistema económico global es el mismo que entonces.

Si hay un pueblo que sabe que debe esperar toda la violencia posible por parte del enemigo, ese es el palestino. Una violencia exterminadora que, a diferencia de la desplegada por la Operación Aniquilación, se transmite en directo a todo el mundo.

Somos nosotros quienes, ante el Plan Gaza, no debemos ceder ni a la incredulidad ni al horror desarmado.

Gaza è Rio de Janeiro. Gaza è il mondo intero.

Di Raúl Zibechi (traduzione Nodo Solidale)

Non ci sono parole sufficienti per descrivere l’orrore che ci provoca il massacro di oltre 130 giovani neri, poveri, uccisi dalla polizia di Rio de Janeiro, con la scusa di combattere il narcotraffico.

Si è trattato di un’operazione di guerra urbana in cui il governo dello Stato ha mobilitato 2.500 poliziotti in assetto da guerra, oltre a blindati ed elicotteri per attaccare i complessi delle favelas Penha e Alemao nella zona nord della città, un’area con un’alta concentrazione di popolazione povera. Si tratta di due complessi di favelas che superano i 150.000 abitanti, con un’enorme densità di popolazione.

Il governo di Rio ha dichiarato che ci sono stati 60 morti, ma la popolazione delle favelas ha portato nelle piazze più di 50 corpi che non figuravano nel conteggio ufficiale, lasciando il dubbio su quanti siano stati uccisi. Finora il numero supera i 120.

Le reazioni non si sono fatte attendere, dalle organizzazioni per i diritti umani alle Nazioni Unite, che si sono dette “inorridite” dal massacro. Al di là dei dati, ci sono fatti rilevanti.

Il genocidio palestinese a Gaza è lo specchio in cui devono guardarsi i popoli e le persone oppresse del mondo. Per chi sta in alto, si apre un periodo di caccia indiscriminata alla popolazione “in esubero”, perché hanno la garanzia dell’impunità. Ora più che mai, Gaza siamo tutti noi. Può essere Quito, San Salvador, Rosario o Tegucigalpa; il Cauca colombiano o Wall Mapu; la montagna di Guerrero o le comunità del Chiapas. Ora siamo tutti nel mirino di un capitalismo che uccide per accumulare sempre più rapidamente.

Dicono narcotrafficanti con la stessa indifferenza con cui dicono palestinesi, mapuche o maya. Sono solo scuse. Argomenti per le classi medie urbane. Ma la storia recente ci mostra che quello che stanno facendo è creare laboratori per il genocidio.

Nel tranquillo Ecuador, quando i popoli indigeni li hanno sconfitti nella rivolta del 2019, hanno reagito liberando i più feroci criminali nelle carceri trasformate in luoghi di sterminio, dove i media mostravano i detenuti che giocavano a calcio con la testa di un decapitato.

Nel Cauca, l’estrazione mineraria a cielo aperto e la coltivazione di droga hanno esacerbato la violenza paramilitare contro le comunità Nasa e Misak che resistono e non si arrendono, rendendo la regione la più violenta di un paese già di suo violento.

Nel territorio mapuche, sia in Cile che in Argentina, i poteri forti hanno deciso che coloro che non si arrendono devono essere definiti “terroristi”, con il risultato che oggi ci sono più prigionieri mapuche che sotto le dittature di Pinochet e Videla.

In Messico, tutto è chiaro, così chiaro che i media e i governi non vogliono farcelo vedere, mascherando la violenza con discorsi che ne sottolineano solo la complicità. La violenza sistematica in Guerrero e in Chiapas dovrebbe essere motivo di scandalo.

A Rio de Janeiro, un sociologo dice spesso che il narco non è uno Stato parallelo, ma lo Stato realmente esistente. Compresi tutti i governatori degli ultimi decenni, con il loro entourage di imprenditori mafiosi, deputati e consiglieri comunali che costituiscono un potere ereditato dagli squadroni della morte della dittatura militare.

Gaza ci pone in un altro luogo, di fronte ad altre sfide. La prima è comprendere che la morte è la ragion d’essere del sistema capitalista. La seconda è capire che questo sistema è composto dalla destra e dalla sinistra, dai conservatori e dai progressisti. La terza è che dobbiamo organizzarci per proteggerci da soli, perché nessuno lo farà per noi.

Il mondo che abbiamo conosciuto sta crollando. Piangiamo quei giovani uccisi a Rio, quei corpi distesi sull’asfalto.

Trasformiamo le nostre lacrime in fiumi di indignazione e in torrenti di ribellione.

La anomalía de la guerra en México

En marzo de 2025, ante la difusión de los horrores del centro de exterminio del Rancho Izaguirre, buscamos las palabras para contar a nuestrxs compas en Italia la indignación, el miedo y la rabia de vivir y luchar en México con tanta obscuridad encima. Salió este texto colectivo – primeramente en italiano – como un análisis que hacemos desde el Nodo Solidale, una mirada empírica y limitada que hoy compartimos en español para aportar a una reflexión más amplia entre quienes luchamos por la vida contra la guerra narco-capitalista que nos imponen.

Los datos de la fábrica del terror

El 5 de marzo de 2025, el colectivo «Guerreros Buscadores de Jalisco» descubre algo que eleva el nivel de crueldad del poder en México: un campo de exterminio del Cartel Jalisco Nueva Generación (CJNG), uno de los cárteles más feroces del país. En un rancho de Teuchitlán, en el campo, a una hora de la metrópoli de Guadalajara (y a media hora de un cuartel militar), detrás de una puerta como otras millones en México, un colectivo de familiares de «desaparecidos» —y no las autoridades competentes, como en la inmensa mayoría de los casos— descubre tres hornos crematorios con fragmentos humanos amontonados y unas 400 pares de zapatos, cientos de otros objetos personales como pulseras, pendientes, gorras, mochilas, cuadernos con larguísimas listas de nombres, que proyectan la dimensión del horror sobre cientos, quizás miles, de personas asesinadas con rigor científico en este campo de exterminio contemporáneo. La visión de la montaña de zapatos de las personas desaparecidas es un puñetazo en el corazón para todos aquellos que, por asociación fotográfica, vuelan con la mente a las peores masacres perpetradas por las dictaduras nazi-fascistas.

Pero Jalisco cuenta con 186 sitios de entierros clandestinos procesados por las autoridades, aunque el rancho Izaguirre no figura en este mapa. Tlajomulco de Zúñiga es el municipio con mayor número de fosas clandestinas, con un total de 75. Guadalajara, la rica, bella, limpia y turística capital del estado, está salpicada de historias de desaparecidos y violencia, algunos monumentos han sido desfigurados y transformados en memoria viva con cientos de fotos y pancartas con los rostros de personas desaparecidas. Una realidad escalofriante que se prolonga desde hace años.

De hecho, hace más de quince años que, como colectivo Nodo Solidale, nos unimos a esa parte de la sociedad civil organizada mexicana que denuncia esta guerra negada, sucia, manipulada o idealizada en las series de televisión dedicadas a los grandes capos del narco. Una guerra totalmente capitalista, destinada a acumular cantidades absurdas de dinero traficando con mercancías y cuerpos. Cuerpos golpeados, violados, explotados hasta la última gota, torturados y luego destrozados, disueltos en ácido, quemados, evaporados y dispersos en la nada del olvido. Son jóvenes atraídos por ofertas de trabajo engañosas, niños desaparecidos en cualquier rincón de una ciudad, chicos reclutados con engaños. Son muchísimas mujeres: niñas, jóvenes, adultas, atrapadas en circuitos de trata, abusos y torturas inimaginables. Es la fábrica del terror, la necro-productividad capitalista. Hablamos de 123.808 personas «desaparecidas», según datos del Registro Nacional de Personas Desaparecidas y No Localizadas (RNPDN) actualizados al 13 de marzo de 2025. Cifras que superan con creces las ya aterradoras cifras del exterminio y las desapariciones forzadas llevadas a cabo durante las dictaduras de Chile y Argentina. Pero en México la mayoría de las víctimas no son militantes políticos, son gente común, lo que reduce en gran medida la repercusión de este terrible crimen, como analizaremos más adelante. Más de 50.000 personas han desaparecido en los últimos seis años, bajo el gobierno de centroizquierda de la pomposamente autodenominada «4^a Transformación», lo que indica matemáticamente la responsabilidad institucional de esta dramática lacra social. A estas cifras hay que sumar los homicidios cometidos en el país desde el inicio de la llamada guerra contra el narcotráfico, es decir, desde diciembre de 2006: 532.609, cifra actualizada al 29 de enero del 2025, según fuentes oficiales. Más de medio millón de vidas truncadas, de las cuales al menos 250.000 durante los últimos seis años, bajo los gobiernos de centroizquierda.

Sobrevivir a la «guerra de fragmentación territorial»

¿Cómo es posible que todo esto pase (casi) totalmente desapercibido?

El elemento fundamental de la anomalía de la guerra en México no reside solo en el alto índice de normalización y negación de la misma, del que hablaremos más adelante, sino sobre todo en su comprensión social, ya que queda relegada a los márgenes de la política y de las definiciones clásicas de guerra. «Todavía no llueven bombas del cielo», nos decimos a veces con ironía, «no estamos tan mal» como en Palestina, Siria, Kurdistán, Sudán o Ucrania. Sin embargo, el número de muertos es el mismo o, en algunos casos, superior.

De hecho, esta no es una guerra simétrica, entre ejércitos desplegados o una invasión declarada por una fuerza armada enemiga; ni tampoco es la típica guerra asimétrica contemporánea, que se libra un poco por todas partes, con fuerzas especiales del Estado enfrentadas a células del «enemigo interno». El frente mexicano se caracteriza, en cambio, por una multiplicación indiscriminada de actores armados y una altísima intensidad de fuego, que fragmentan el campo de batalla en micro-conflictos muy violentos, dispersos y poco visibles, que elevan brutalmente la tasa de mortalidad entre la población civil, mientras que la actividad económica, política y social continúa en general, con apagones e intermitencias en la gestión de la vida pública local. Definimos, por tanto, esta anomalía bélica como «guerra de fragmentación territorial». Por otra parte, las zonas más afectadas por las ofensivas y contraofensivas de los distintos grupos armados (ilegales o institucionales), por las redadas, las desapariciones y los reclutamientos forzados, son los territorios rurales o las periferias semi-rurales, como por ejemplo Teuchitlán, donde «apareció» el centro de exterminio y entrenamiento forzado en el rancho Izaguirre. En medio de las áreas industriales, en los territorios fronterizos, en el desierto, en la costa, en las montañas, la gestión de las rutas, los campos de cultivo y el tráfico de seres humanos está desde hace décadas en manos de diferentes grupos de poder que se enfrentan entre sí sobre las poblaciones periféricas, a menudo indígenas y campesinas, que no son noticia y, a veces, ni siquiera aparecen en las estadísticas. Cuando la guerra entre los distintos actores armados llega a las ciudades, se hace visible, «registrable», causa revuelo, pero a menudo la indignación se evapora por el miedo a las represalias y cuando la violencia disminuye localmente en una zona, se intensifica en otra.

Con el desmoronamiento de los grandes cárteles, más o menos estables hasta finales de los años 90, y la intromisión militar activa del Estado mexicano como socio del Cártel de Sinaloa (2006) contra todas las demás organizaciones criminales, se ha llegado a la explosiva creación de cientos de grupos armados (240 según un reciente informe de la Secretaría de Gobernación) que, a su vez, se ramifican en células y subgrupos locales, que gestionan físicamente en barrios y pueblos actividades ilícitas como el cobro de piso, la prostitución, los secuestros y la fabricación y distribución de armas y drogas. La multiplicación de los actores armados ha aumentado considerablemente la fragmentación del territorio, generando una violenta balcanización del país, atravesado por amplias zonas «prohibidas» o con circulación restringida por el toque de queda. Estas numerosas estructuras/empresas criminales cuentan con el apoyo logístico y de control del flujo de mercancías/personas de todas las fuerzas armadas y de seguridad del Estado, definidas como «corruptas» pero en realidad estructuralmente vinculadas a la economía ilegal, involucradas en diferentes niveles y divididas en diferentes grupos, incluso rivales y, por lo tanto, también en conflicto entre sí. Basta con mencionar que en la última «limpieza» ordenada este año por el actual gobernador de Chiapas, Eduardo Ramírez, en su afán por recuperar una imagen pública decente y con la necesidad de reordenar el flujo de cocaína y migrantes en la zona estratégica de la frontera sur siguiendo los intereses de otros grupos de poder, fueron detenidos por vínculo con el narco-trafico 270 policías (y al menos tres alcaldes) en cinco ciudades diferentes de la región, lo que demuestra implícitamente el nivel de cooperación que existe entre el Estado y el crimen organizado. Sin embargo, no hay que imaginar al Estado y al crimen como dos bloques monolíticos opuestos, sino que debemos acostumbrarnos a ver y comprender el panorama mexicano como un gran mercado, donde numerosas agencias, puntos de venta y sucursales, grupos de presión, jueces, políticos y burócratas, junto con muchos actores armados, uniformados o no, participan, se alían y luchan a un ritmo vertiginoso para asegurarse un jugoso porcentaje en el control de los recursos del país (y, solo en parte, del torrente de cocaína que lo atraviesa, a petición de los “clientes” de Estados Unidos de América).

La economía criminal como modo de producción capitalista

La difusión de la economía criminal y su organización es una reestructuración capitalista del dominio y saqueo de los territorios, una forma de acumulación que en México se manifiesta con esta especificidad que definimos como «guerra de fragmentación territorial». En América Latina, el Estado ha contribuido constantemente a la acumulación (primitiva y posterior) de capital a través de las fuerzas armadas, con la agresión directa contra quienes impedían el saqueo, a menudo los pueblos indígenas, los obreros y los campesinos. Las clases subalternas han desarrollado a lo largo de los siglos numerosas y variadas formas de resistencia, incluso armadas, lo que ha dado lugar, hasta hace unas décadas, a un período feroz, pero también formidable, de lucha guerrillera contra el poder estatal, la oligarquía y las grandes empresas. En México son numerosos los casos de organización de la lucha armada, herederos primero de la Independencia y luego de la Revolución, ambas iniciadas y llevadas a cabo principalmente por los campesinos, los indígenas y, posteriormente, los obreros. Tras la insurrección zapatista de 1994 y el amplio consenso global que obtuvo, para el Gobierno mexicano reprimir la resistencia popular con las fuerzas armadas ha tenido, y sigue teniendo, un coste político muy alto (recordemos, por ejemplo, el caso de Ayotzinapa), razón por la cual el uso de sicarios como outsourcing de la represión se ha convertido a lo largo de los años en un verdadero dispositivo para alcanzar territorios estratégicos, despoblarlos mediante la política del terror implementada por los grupos criminales y reorganizarlos según la lógica económica específica (implantar una mina, un consorcio turístico, un puerto, una presa o simplemente reorganizar la mano de obra y los recursos a favor del grupo «ganador»). Se ha pasado del uso histórico y secular de mercenarios a sueldo del Estado a la creación de numerosas empresas criminales regionales y locales que, independientes pero asociadas al Estado, gestionan, controlan y aterrorizan a la población para su propio beneficio y con un objetivo compartido con quienes gobiernan las instituciones: el enriquecimiento ilimitado. Por lo tanto, la represión ya no es sólo contra lxs guerrillerxs y lxs activistas, sino que es una forma de gobernanza —flexible, elástica pero despiadada— sobre toda la población y los territorios en los que esta vive, trabaja y sueña.

Este dispositivo infernal, además de perpetuar la necesidad capitalista de cosificación y valorización de cada elemento, cada territorio y cada ser humano, desempeña un papel estratégico importante en la guerra ideológica: el de despolitizar la lucha de clases, la resistencia contra el saqueo de cada espacio habitable.

El uso del crimen organizado, comúnmente llamado «narco», como brazo armado del capitalismo permite situar a las víctimas en el terreno fangoso de la duda: ¿lo mataron porque luchaba o porque tal vez tenía alguna tranza por ahí que no se sabía? ¿Quién fue realmente? Un asesinato cometido por la policía o el ejército en un enfrentamiento político (una manifestación o un combate guerrillero) no tiene la misma repercusión en la opinión pública que un asesinato, con los mismos fines, cometido por sicarios vinculados a un grupo criminal, durante la «normalidad» de la vida cotidiana. O a veces ni siquiera la terrible «dignidad» del asesinato, sino la desaparición forzada en la nada, donde la víctima es engullida por la oscuridad por un verdugo invisible. De esta manera se pierden más fácilmente los rasgos de un delito político, se «normaliza» la agresión haciéndola deslizar en el océano anónimo de los «delitos comunes», que no merecen atención. Al mismo tiempo, un asesinato claramente político —tan dramáticamente recurrente en la larga historia de la lucha de clases— desencadena efectos y reacciones con responsabilidades políticas directas: «¡Ha sido el Estado!». Y la gestión del Estado, por muy feroz que sea, puede ser cuestionada, se convierte «naturalmente» en el objetivo de la ira popular, al igual que históricamente los movimientos sociales han denunciado y combatido la violencia del ejército y la policía, como brazos armados del poder y, en cierto modo, «traidores», como el Estado, al pacto social con el pueblo, que los mantiene. Pero cuando la fuente de la violencia es un grupo de empresarios feroces, sin uniforme, sin reglas de combate, sin una ética y un pacto social al que someterse: ¿cómo se rebela uno? ¿Contra quién y cómo se dirige la ira social? Es difícil, a pesar de algunas excepciones heroicas, manifestarse, organizarse y defenderse contra un enemigo sin reglas, que se ha infiltrado en el tejido social y es camaleónico, tal como las mafias.

Preguntas incómodas

A menudo, en Italia (de dónde somos originarixs o descendientes la mayoría de nuestro colectivo internacionalista), entre una actividad de contra-información y otra, hemos escuchado preguntas dudosas: «¿Pero realmente hay guerra en Chiapas? ¿Es así en todo México?», a lo que se añade quizá: «Es que yo fui allí de vacaciones y me pareció bastante tranquilo…».

Existe una tendencia generalizada a minimizar el alcance del horror, de la gestión metódica (propia de un campo de exterminio), institucional, social y política del «fenómeno narco». Por un lado, la superficialidad del análisis del poder, reproducida por los medios de comunicación dominantes, que como mucho solo destaca los aspectos «folclóricos», anecdóticos e incluso «brillantes» (como El Chapo Guzmán, que apareció en la lista de millonarios de Forbes) de múltiples «casos aislados»; y esta es la que llega más ampliamente afuera de México, una elección narrativa del poder para distraer la atención sobre las especificidades sistémicas del «problema». Por otro lado, está la normalización que la propia sociedad lleva a cabo (y que también hacemos nosotros, que denunciamos su barbarie) para sobrevivir: salimos de casa, vamos al trabajo o al súper, de repente se oyen disparos y… esperamos, en un refugio improvisado, a que termine el tiroteo y luego retomamos la rutina. O llega un mensaje de la hija del vecino «desaparecida», lo leemos con un suspiro, lo difundimos en los chats y volvemos a nuestras ocupaciones cotidianas, tal vez susurrando una oración y esperando en silencio que nunca le toque a nuestra propia hija, a un familiar, a un amigo del corazón. En México, aparentemente, la vida transcurre con normalidad, los niños van al colegio, de vez en cuando lo cierran por algún tiroteo, pero los niños saben, como en caso de terremoto, que deben agacharse debajo de las mesas o tumbarse en el suelo, precisamente porque la balacera se vive como cualquier otra catástrofe natural, interiorizada y afrontada como tal. Entre la banalización de los medios de comunicación y la habituación a la violencia como instinto de supervivencia masivo, se esconde la ceniza (de los cuerpos carbonizados) bajo la alfombra de la normalidad. Y así, a pesar de ciertos momentos de indignación, rebelión y fuerte protesta popular (como las movilizaciones de 2011 del Movimiento por la Justicia con Dignidad, las de 2014/2015 por los 43 de Ayotzinapa, la creación de «Guardias Comunitarias», sobre todo en los territorios indígenas), hemos llegado a medio millón de personas asesinadas, más de 120 000 desaparecidos y al descubrimiento de centros de exterminio en esta gran fosa común llamada México.

La gravedad de los crímenes encontrados en el rancho de Teuchitlán, registrado por las fuerzas del orden en 2017 y luego en septiembre de 2024, que «no habían notado la presencia de hornos y otros detalles», pone de manifiesto una vez más la densa red de complicidad entre el crimen y el Estado mexicano. La gestión de un centro de entrenamiento y eliminación física de cadáveres a este nivel solo puede funcionar con el silencio —y posiblemente el apoyo directo— de las instituciones políticas y judiciales. Un genocidio, un crimen contra la humanidad, se perpetraba a las puertas de la segunda ciudad más importante de México, donde se captaba a la gente en las estaciones de autobuses, se la llevaba allí, se la maltrataba física y sexualmente, se la incitaba a matar y, a quienes sobrevivían al infierno, se les obligaba a convertirse en sicarios, en máquinas de muerte para la producción y acumulación de riqueza del CJNG. Todas las demás personas eran torturadas atrozmente y luego quemadas, barridas como basura. Humo.

Las preguntas que se derivan de ello son terribles: ¿cuántos otros centros de exterminio similares están funcionando y son tolerados en otros lugares de México? ¿Hasta cuándo seguiremos mirando hacia otro lado, permitiendo que las empresas, los gobiernos y sus brazos armados dispongan de forma tan atroz de nuestros cuerpos, de nuestro futuro? ¿Hasta cuándo aceptaremos vivir con miedo y terror en el alma?

Y para quienes viven al otro lado del océano: ¿hasta cuándo las series sobre el narcotráfico y el turismo inconsciente trivializarán nuestras conversaciones sobre México?

¿Hasta cuándo pensaremos que esas «dos rayas de falopa» que nos echamos los sábados por la noche no nos convierten en cómplices del lado más feroz del capitalismo?

¿Hasta cuándo seguiremos indiferentes?

¿Hasta cuándo nos absolveremos?

Nodo Solidale

#NarcoEsDespojo #NarcoEsCapitalismo #NarcoEsElEstado

Arar el Campo de la Esperanza

Recibimos, publicamos y compartimos estas reflexiones del compañero Vito, de Terra Insumisa (Sicilia, Italia), quien se encuentra ahora en la isla de Creta, como integrante de la Global Sumud Flotilla, arreglando los barcos que fueron atacados y dañados en alta mar por los drones israelíes.

Arar el Campo de la Esperanza: Un Grito Contra los Juegos de Poder, por la Vida (por Vito – Terra Insumisa)


Les escribo desde Creta, desde el puerto de Ierapetra, donde mis manos están ocupadas en reparar las embarcaciones golpeadas por los drones. Pero esto no es solo un relato de reparaciones. Es una restitución, un intento de dar sentido a la misión que estamos llevando a cabo, una misión que busca poner en navegación no solo embarcaciones, sino la vida y la esperanza mismas.

En este momento difícil, mientras palabras de desconfianza y traición intentan insidiosamente socavar nuestra determinación, es fundamental reafirmar quiénes somos. Estas manos y este corazón están con las personas en el mar, con las Flotillas por la Vida y contra la muerte. No somos políticos de sonrisas falsas, cuya política ya nos ha roto el alma demasiadas veces. Al contrario, nuestro punto de partida es otro: es un grito para romper el asedio.

Un grito de partida. Al principio no hay la palabra calculada, sino el grito. Un grito de tristeza, de horror, de rabia y de rechazo ante la mutilación de las vidas humanas perpetrada por el capitalismo. El pensamiento nace de la rabia, no de la pose de la razón. El grito contra todas las guerras capitalistas no es un simple eslogan, sino la articulación de un profundo disenso que nace de la experiencia. Vemos nuestras escuelas invadidas por soldados, nuestra tierra llenarse de F-35, los mismos aviones que siembran muerte en la tierra de nuestros hermanos y hermanas en Palestina. Vemos la política armando a los poderosos y llevando miseria a las niñas y niños hambrientos. Esta rabia no es un fenómeno aislado; es la conciencia de que el mundo es fundamentalmente erróneo, que estas injusticias no son casuales sino parte de un sistema.

Este grito, sin embargo, no es desesperación. Es un grito a dos dimensiones: la rabia que nace de la experiencia presente lleva consigo una esperanza, la proyección de una alteridad posible.
Es un rechazo a aceptar lo inaceptable: que la lógica de la muerte deba prevalecer, que los juegos de poder deben seguir envenenando las raíces de las misiones por la vida. Lo que enfrento, lo que enfrentamos no es simplemente un conflicto entre naciones o un acto de guerra aislado. Es una forma de violencia organizada, un conglomerado de intereses que involucra el aparato estatal, la iniciativa privada y las mafias criminales. Esta violencia es la expresión de un orden patriarcal y capitalista que se ha construido históricamente a través de la guerra, la apropiación de los cuerpos y la destrucción del territorio. Cuando vemos los ataques de los NarcoEstados o la lucha contra un genocidio, estamos asistiendo a las manifestaciones de este sistema global. En América Latina, en Palestina, como en otros lugares, el capitalismo está asumiendo un perfil cada vez más mafioso y criminal, donde las prácticas ilegales se convierten
en el núcleo de la acumulación.

Es por esto que la lógica de la política tradicional, la de los juegos de poder, resulta no solo ineficaz, sino tóxica. La idea de cambiar el mundo tomando el poder, conquistando el Estado, es un paradigma que ha dominado el pensamiento revolucionario durante más de un siglo, pero que ha demostrado su fracaso. El Estado no es un instrumento neutro que puede ser usado para el bien; está profundamente integrado en la red de relaciones sociales capitalistas. Intentar usar el Estado para cambiar la sociedad significa caer en la trampa de adoptar la lógica misma del poder que se quiere combatir. La lucha se pierde no cuando se es derrotado, sino cuando se adopta el lenguaje y los métodos del poder.
Nuestra misión, por lo tanto, se sitúa fuera de esta lógica. Nosotros, gente de la tierra, nos movemos no para conquistar el poder, sino por la vida que llevamos y por el pueblo que somos. El desafío revolucionario hoy es precisamente este: cambiar el mundo navegando.

Si la toma del poder no es el camino, ¿cuál es la alternativa? La respuesta se encuentra en las prácticas de los pueblos en movimiento, que crean otros mundos aquí y ahora. Nuestra acción, como la de los zapatistas en Chiapas o los movimientos indígenas en Bolivia, no está dirigida a un objetivo futuro, sino que es en sí misma la prefiguración de la sociedad por la que luchamos. La resistencia no es solo decir “no”, sino también construir, crear relaciones sociales diferentes alas capitalistas.

bandera zapatista

Las Flotillas por la Vida son una de estas grietas en el sistema. En un mundo dominado por la lógica de la muerte, la militarización y el lucro, una acción que lleva vida y esperanza es un acto de profunda subversión. Es la afirmación del “poder-hacer” (nuestra capacidad creativa y colectiva) contra el “poder-de-arriba” (la dominación y la opresión). Es un acto de dignidad: el rechazo a aceptar la humillación y la deshumanización, un rechazo que lleva consigo el proyecto de la humanidad que nos es negada. Esto también significa superar una visión que separa las luchas. La frase “si tocan la Flotilla se bloquea todo” es correcta, pero debe ampliarse: “si no imponen el embargo a Israel, si no detienen todas las guerras capitalistas, bloqueamos todo”. La rabia contra la militarización de nuestras vidas y de nuestro suelo es el surco a trazar para unirnos. La lucha por Palestina es la lucha contra la militarización de la tierra, contra la violencia de los NarcoEstados, contra toda forma de opresión capitalista.

Mientras espero volver a poner en el mar estas embarcaciones, la pregunta fundamental que me hago es si nuestro corazón está listo para luchar al lado de estos pueblos. Esta lucha no busca aplausos ni lugares cómodos. Es una práctica diaria de resistencia y creación, una acción que, al igual que la de los zapatistas, desarrolla economía, salud y educación dentro y para la resistencia misma. Reparar una embarcación se convierte así en un acto político, una forma de tejer relaciones de solidaridad, amor y comunidad frente a la reducción de cada relación a mercancía. Es la materialización de la esperanza no como un piadoso deseo, sino como una práctica concreta de liberación. Nuestra misión es un fragmento de ese otro mundo que estamos construyendo, un mundo basado en la dignidad y el respeto mutuo.

Nuestro grito contra todas las guerras capitalistas sigue resonando desde este puerto. Es un grito que une nuestra acción aquí, en Creta, con la resistencia en Palestina y la de todos los pueblos que luchan. Es la conciencia de que nuestra lucha es una sola, indivisible.
Porque hoy es Palestina, pero mañana seremos Nosotros y Nosotras.

Podcast: Ayotzinapa, 11 anni di tenace resistenza

26 Settembre 2014 – 26 Settembre 2025.
Sono passati ormai 11 anni da quella maledetta notte di Iguala, nello stato di Guerrero, dove scomparirono 43 studenti della Scuola Normale Isidro Burgos di Ayotzinapa, mentre realizzavano un’attività per raggiungere Città del Messico e lì partecipare alla manifestazione in ricordo del massacro studentesco del 2 ottobre 1968.
Il caso Ayotzinapa, una pagina dolorosa e chiave che mette in luce la violenza criminale e statale, e la tragedia politica e umana delle sparizioni forzate, nel Messico odierno. Un + 43 il cui debito oggi pesa come un macigno.Un crimine di Stato, di cui ancora non c’è alcuna verità condivisa, né tantomeno storica.

Con questo podcast, facendoci aiutare dalla giornalista freelance Caterina Morbiato, cerchiamo di ripercorrere alcuni elementi chiave del “Caso Ayotzinapa”, spiegando perché proprio gli studenti di Ayotzinapa, i tentativi di insabbiamento del governo federale e dei suoi vari apparati di sicurezza, la mancanza tutt’ora di una giustizia formale, le ambiguità dei vari governi che si sono susseguiti e, soprattutto, il dolore e la rabbia dei genitori dei 43 studenti scomparsi.

11 anni di ingiustizia, di mancata verità, di falsità, di dolore.
11 anni di incrollabile dignità, di lotta, di manifestazioni, di coscienza, di volontà e di coraggio.
Questo insegnano i genitori e i compagni e le compagne dei 43 studenti normalisti di Ayotzinapa.
Un debito ancora aperto, fino al giorno in cui non torneranno.

¡Porque vivos se los llevaron, vivos los queremos!