Proponiamo la traduzione di questa recente intervista a Rohilat Afrin, Comandante Generale delle Unità di Difesa delle Donne (YPJ), una delle più importanti vertebre del processo politico straordinario dell’Amministrazione Autonoma del Nord ed Est della Siria. Consideriamo che le parole della Comandante ci aggiornano e fanno luce sui complessi rapporti di forza dentro lo scenario della Siria post-Assad e ci ricordano la necessità di mantenere alto il livello di organizzazione attorno alle conquiste sociali della “Rivoluzione di Rojava”.
Rohilat Afrin: “Siamo al tavolo delle trattative grazie ai nostri propri sforzi”
Di Meghan Bodette e Aras Yussef, 11 dicembre 2025
Questa è un’intervista è del Kurdish Peace Institute di Qamishlo, che fornisce l pubblico informazioni concrete e radicate a livello locale su questioni critiche che riguardano la Siria nord-orientale, la regione e il mondo. L’intervista è stata tradotta dal curdo all’inglese e leggermente modificata per maggiore chiarezza. La traduzione dall’inglese è del Nodo Solidale. Link dell’articolo originale qui.
Kurdish Peace Institute: Grazie per il suo tempo e le sue riflessioni. Può presentarsi e spiegare il ruolo che le Unità di Difesa delle Donne (YPJ) svolgono nelle Forze Democratiche Siriane (SDF) e in Siria settentrionale e orientale in generale?
Rohilat Afrin: Sono Rohilat Afrin, comandante generale delle YPJ. Sono anche membro del comando generale delle SDF. Le YPJ esistono in qualche forma da quasi tredici anni, cioè per tutta la durata della rivoluzione del Rojava. Se vogliamo parlare in modo ufficiale, le YPJ esistono da 11, 12 anni.
Le YPJ sono diventate parte integrante della difesa della nostra società. Per la prima volta, un esercito di donne è stato in grado di opporsi a una forza invasora e oppressiva. Poiché l’YPJ si basa sul concetto di autodifesa, non c’è stata nessuna reazione sociale contro la partecipazione delle donne nelle forze armate. Questa società ha sempre avuto bisogno di difendersi. Se guardiamo alla storia, il popolo curdo e il popolo siriano hanno attraversato molte guerre, ma non si è mai sviluppata nessuna forza in grado di assumersi la responsabilità della difesa della loro terra e del loro paese. Certo, le persone sono andate a combattere e sono diventate soldati. Ma il servizio militare le ha separate da se stesse, dalla loro terra, dalla loro causa, dalla loro società. Hanno servito i regimi sotto cui vivevano.
L’YPJ è importante come forza armata, come modello e per il suo impatto sulla società. Perché qual è la necessità fondamentale delle donne in tutto il mondo? È l’autodifesa. L’YPJ si è organizzata inizialmente attorno a questa idea e a questo principio, non alle armi. Abbiamo scelto l’autodifesa come obiettivo, credendo nelle nostre conoscenze e capacità come donne.
L’esistenza dell’YPJ in Rojava, nel nord-est della Siria, è una boccata d’aria fresca per tutte le donne che soffrono nel XXI secolo. Non solo per le donne curde, non solo per le donne della nostra regione, ma per tutte le donne. In pochissimo tempo, il nostro modello, il nostro esercito e le nostre idee sono diventati noti in molti paesi stranieri. Non siamo mai state in America. Ma la nostra prospettiva ha raggiunto l’America. Non eravamo in Europa, ma la nostra prospettiva ha raggiunto l’Europa. Non eravamo in altre parti del Medio Oriente, ma la nostra prospettiva si è diffusa in tutta la regione. Nel XXI secolo, è diventato chiaro che le donne e la società avevano bisogno di qualcosa del genere. Questa necessità ha raggiunto tutte le donne.
La nostra società curda aveva una certa esperienza in questo senso. Molte delle nostre amiche, vicine, parenti erano andate a combattere, ad esempio, con lo YJA-STAR [il braccio armato femminile del PKK]. Questo già esisteva. Abbiamo aperto gli occhi in questo modo: dove è andata questa donna? Perché ha preso le armi? Posso dire che il livello di organizzazione militare delle donne in Kurdistan ha avuto un impatto su di noi. In particolare, abbiamo visto che ogni donna che ha lasciato la propria casa per combattere, che è andata in Iraq, in Turchia, lo ha fatto per difendere tutto il Kurdistan e tutto il popolo curdo.
Con la sua motivazione, la sua filosofia e la sua prospettiva di autodifesa, l’YPJ è stata in grado di chiudere la porta a un gruppo come l’ISIS durante gli anni più lunghi e bui della guerra in Siria. L’ISIS sembrava inarrestabile in tutto il mondo. Ma qui, una lotta condotta sotto la guida delle donne è riuscita a sconfiggere l’ISIS. Non è una cosa normale. Forse ci siamo abituate, perché viviamo in questa realtà, fa parte di ciò che siamo. Ma altrove è diventata una storia, una leggenda, un argomento di interesse. Come hanno fatto quelle donne a raggiungere questo risultato? Posso dirvi come.
Noi, come YPJ, non abbiamo iniziato con le armi. Voglio sottolineare questo fatto. Abbiamo iniziato con l’organizzazione. La nostra arma più grande all’inizio era la nostra organizzazione. Da due, tre, quattro donne, siamo diventate centinaia e centinaia.
All’inizio, abbiamo detto che noi donne dovevamo essere lì, nelle forze armate. Vedevamo dieci uomini, venti uomini, l’intera accademia militare, e tra loro c’erano forse quattro o sei donne. Non c’erano molte donne. Ma avevamo la convinzione che le donne dovevano essere lì e fare questo lavoro, che noi donne dovevamo unirci. E quando la società ha visto che avevamo un obiettivo, che avremmo fatto qualsiasi cosa per combattere e proteggere la nostra terra, la nostra gente, le nostre famiglie, ha iniziato a sostenerci.
Quindi, posso dire che l’YPJ, sia come esercito che come filosofia, ha raggiunto questo livello grazie alla sua capacità di organizzazione. Se non avesse avuto questa forza organizzativa, se non avesse avuto una base filosofica e teorica e non avesse scelto i leader giusti, forse non sarebbe potuto diventare l’esercito che è oggi. Queste cose sono fondamentali. Per diventare un esercito, servono un obiettivo e un’organizzazione. Nel XXI secolo, le donne di tutto il mondo stanno imparandodall’YPJ come difendersi. Siamo diventate un’ispirazione per tutte le donne, non solo per quelle del Kurdistan, del Rojava o della Siria. In ogni epoca, i popoli e le società hanno qualche tipo di esigenza e la leadership si sviluppa per soddisfarla. Ora possiamo dire che l’YPJ sta svolgendo questo ruolo per le donne.
Può fornire un esempio specifico dell’impatto delle forze composte esclusivamente da donne sulla sicurezza, la governance o la società? In altre parole, quali sono alcune delle cose che l’YPJ fa e che le unità maschili o miste non potrebbero fare o non farebbero altrettanto bene?
Le racconterò una storia che ho condiviso molte volte. Abbiamo aperto la nostra prima accademia femminile ad Afrin. Volevamo che le donne imparassero a difendersi in ogni modo possibile. Nel programma, ad esempio, abbiamo detto che le donne avrebbero dovuto allenarsi per imparare a conoscere la loro forza fisica. Le donne dovevano anche imparare la loro forza mentale, attraverso l’educazione politica e ideologica. E in terzo luogo, ci sarebbe stata l’educazione militare. Dovevano imparare a usare la tecnologia che avrebbero avuto a disposizione. Non abbiamo mai pensato di iniziare con le armi. Prima di imbracciare le armi, le donne dovevano capire la politica, l’ideologia e la filosofia.
Abbiamo riunito un gruppo di 30 o 35 donne. Tra loro c’era una madre che poteva avere 50 anni. Era di Amude. All’inizio abbiamo discusso tra noi se sarebbe stata in grado di partecipare a tutte le attività dell’accademia. Le abbiamo parlato e le abbiamo detto che avremmo dovuto rifiutarla: il programma era difficile, le condizioni dell’accademia erano dure e temevamo che potesse essere troppo per lei. Naturalmente, lei ci ha dato una lezione proprio lì. “Chi siete voi per cacciarmi da questa formazione!”, ha risposto.
La filosofia ci insegna che la prima cosa da fare è conoscere se stessi. Questa madre, che ci ha chiesto chi fossimo noi per fermarla, che ha detto che anche lei voleva imparare a combattere, sapeva chi era e quel giorno ha dato a tutti noi una lezione di autodifesa. Ha detto che non avrebbe lasciato l’accademia finché non avesse imparato a usare la sua arma e, con quella determinazione, non se ne è andata. La nostra forza e la nostra capacità organizzativa come YPJ derivano da donne come lei.
L’autodifesa è la parte più importante della civiltà. Non è necessaria solo quando una società è in guerra. Le minacce provengono dalla natura, dagli animali, da altre persone, da qualsiasi luogo: bisogna essere in grado di proteggere la propria società da qualsiasi pericolo. Oggi vediamo che le persone meno protette nella società sono le donne. Le donne subiscono violenza domestica, stupri, disuguaglianze e vengono sminuite quando chiedono la fine delle ingiustizie. Alcuni attacchi alle donne potrebbero non essere fisici, ma alla base della violenza fisica c’è l’idea che qualcuno sia inferiore. Se i tuoi diritti, il tuo corpo, la tua lingua, la tua cultura, la tua opinione vengono negati e ignorati, potresti essere attaccata.
L’YPJ ha ribaltato questo status quo. Noi diciamo che ovunque una donna subisca violenza – a casa sua, da criminali per strada, da una mentalità che nega alle donne la parità di umanità – deve essere in grado di difendersi. Abbiamo iniziato il nostro lavoro su questa base. E, naturalmente, in ultima analisi, se c’è un attacco da parte di un nemico straniero, anche lei deve prendere le armi e difendersi. Prima, le donne potevano lasciare le loro case e le loro comunità, lasciare questa regione e andare in altre parti del Kurdistan per combattere. Forse la loro lotta non ha avuto un grande impatto sulla comunità in generale. Ma le YPJ sono diverse. Abbiamo difeso la nostra società dall’interno. Non abbiamo aspettato che qualcuno venisse dall’esterno a salvarci. E naturalmente, se questo non fosse stato collegato a un’ideologia e a un obiettivo, non sarebbe stato possibile. Questo legame, questa base, è il motivo per cui nessuno è riuscito a distruggere la nostra organizzazione in 12 anni. Il ruolo delle YPJ è diventato evidente per la prima volta nella guerra contro l’ISIS e continua ancora oggi.
La caduta del regime nel 2024 e l’arrivo delle forze islamiste radicali hanno portato tutti a chiedersi: qual è il futuro delle YPJ? Non solo delle YPJ, ma anche della popolazione, di tutta la Siria settentrionale e orientale, del sistema autonomo locale. Come potremmo vivere sotto il loro dominio? Due sistemi molto diversi si sono ora confrontati in Siria. Uno è un sistema duro e fondamentalista. L’altro, la nostra amministrazione, si basa sulla volontà del nostro popolo.
Come lei descrive, la Siria è ora divisa tra due sistemi politici molto diversi. Questi due sistemi hanno lavorato per unirsi nel quadro dell’accordo di integrazione del 10 marzo 2025 firmato dal comandante in capo delle SDF Mazlum Abdi e dal presidente siriano Ahmed al-Sharaa. In generale, come stanno procedendo i colloqui di integrazione? Qual è il ruolo delle donne e delle strutture femminili in questi colloqui?
È passato un anno dalla caduta del regime. In questo periodo ci sono stati molti cambiamenti. Ancora una volta, persone innocenti sono diventate vittime della guerra. È passato un anno da quando gli sfollati di Afrin sono stati costretti a lasciare Shahba, per esempio. Lo Stato non è così scosso. Quando le persone vengono attaccate, uccise, costrette a migrare, lo Stato non ascolta.
Ora, la domanda più importante è questa. La forza che ora domina la Siria ha un passato come entità radicale che ha devastato e oppresso persone innocenti. Proviene dal jihadismo, da al-Qaeda. Da lì, dove è andata e dove andrà? Come è arrivata al potere? Chi l’ha sostenuta? Come è diventata così legittimata? Dobbiamo capirlo. Anche se, naturalmente, quando una forza diventa uno Stato, nessuno presta molta attenzione a ciò che poteva essere prima.
60 anni fa, in Siria è stato creato un sistema centralizzato. Il popolo siriano ha sofferto in ogni modo inimmaginabile a causa di questo sistema. Ora, con l’arrivo del governo di transizione di Sharaa, dobbiamo guardare a questa storia. Anche la comunità internazionale può valutare la situazione. Da parte nostra, come Siria del Nord e dell’Est, SDF e YPJ, abbiamo intrapreso molti dialoghi e negoziati. Il risultato più importante di questi impegni è stato l’accordo del 10 marzo. Questo accordo è stato raggiunto sul principio che questa società, questa componente, la sua lingua, la sua cultura, i suoi diritti e la sua esistenza saranno riconosciuti nella costituzione.
La garanzia più importante per qualsiasi società sono i diritti costituzionali. Se una comunità, un popolo, una lingua o una componente non sono riconosciuti dalla costituzione, la loro esistenza nel proprio paese è minacciata. Se non si ha alcuna presenza nelle assemblee e nei parlamenti, non si esiste.
Ci sono stati molti cambiamenti nel XXI secolo. Il governo di transizione stesso non nasconde ciò che era in passato. Prima lo Stato Islamico, poi Al-Qaeda, al-Nusra, poi HTS, e HTS è diventato un governo, uno Stato. Questo è un cambiamento, e non può essere solo superficiale. Il mondo deve crederci. Se vogliono allontanarsi da una storia così oscura e diventare i rappresentanti di una repubblica, allora devono riconoscere i diritti di tutte le componenti.
Per tredici anni abbiamo combattuto questa battaglia. Molte persone hanno dato la vita. Possiamo dire che c’è stato un cambiamento, che il vecchio sistema è stato distrutto, ma questo di per sé non è sufficiente. Siamo pronti a vivere in una Siria unificata, ma deve essere una Siria democratica. Questa Siria democratica deve proteggere i diritti di tutti i suoi popoli: curdi, arabi, siriaci, musulmani, cristiani, drusi. E la migliore garanzia di questa protezione è il riconoscimento di tutte le componenti nella costituzione. L’integrazione parte da qui.
All’inizio hanno detto che ogni soldato delle SDF avrebbe dovuto arruolarsi nell’esercito, uno per uno. Ma le SDF non possono arruolarsi in questo esercito come individui. Abbiamo detto loro: va bene, siamo pronti ad arruolarci nell’esercito, ma in quale esercito volete che ci arruoliamo? Esiste qualcosa che si chiama esercito in Siria? No! Ci sono più di 100 milizie. Ognuno forma il proprio gruppo e gli dà un nome. Abu Amsha ha una milizia, Abu Shaqra ha una milizia, Hamzat ha una milizia. Si può chiamare un esercito?
In tutta la Siria, l’unico esercito che ha una struttura, esperienza e capacità è l’SDF. Per tredici anni, questa forza ha combattuto contro l’ISIS, contro le potenze straniere che ci hanno attaccato. Noi diciamo che l’SDF può essere un modello per l’esercito siriano. Perché questo dovrebbe danneggiare la Siria? Non danneggerà affatto l’unità della Siria. Le SDF sono qui oggi, ma domani potremmo proteggere Damasco. Potremmo proteggere Aleppo, Suwayda o la costa. Il modello delle SDF può essere un modello per il nuovo esercito siriano. Quando diciamo questo, non stiamo dicendo che la Siria dovrebbe essere divisa o che vogliamo vivere separatamente. Non diciamo che dobbiamo essere indipendenti. Quello che chiediamo è una Siria democratica che riconosca i diritti di tutte le sue componenti.
Per quanto riguarda l’integrazione, abbiamo iniziato insieme, ma non abbiamo ancora raggiunto un accordo. Recentemente, ci sono state alcune discussioni su come potremmo organizzarci come parte del nuovo esercito. Ma la questione fondamentale sono le garanzie costituzionali. Quando le avremo, potremo parlare delle SDF, delle nostre istituzioni, di tutto.
Il tempo in cui viviamo richiede che tutti cambino se stessi. In Siria, il vecchio sistema è caduto. Non viviamo più nell’era pre-2011. Quando Assad era al potere, aveva uno Stato centralizzato. Quello Stato è stato distrutto. Se lo stesso sistema centralizzato cerca di ricostruirsi con un colore diverso, non si tratta di un vero cambiamento.
Tutto questo per dire che sì, i negoziati sono in corso, ma non abbiamo ancora concordato misure concrete da adottare insieme. Al tavolo delle trattative tutto viene approvato, ma una volta alzati dal tavolo la situazione rimane quella di prima. Lo vediamo in particolare dal lato del governo di transizione. Lasciatemi ripetere: il nostro obiettivo non è la divisione della Siria. Il nostro obiettivo è una Siria democratica. Se guardate le SDF, vedrete che hanno costruito un esercito che include tutte le componenti. Anche le YPJ sono così. Donne di tutte le componenti siriane hanno aderito alle YPJ. Possiamo mettere questa esperienza al servizio di tutta la società siriana. Ad esempio, quando l’ISIS era a Deir Ezzor, non abbiamo detto: “Deir Ezzor è una regione araba, non ci andremo”. Abbiamo combattuto l’ISIS ovunque andasse e abbiamo dato migliaia di martiri per farlo. Raqqa non è nemmeno una città curda. Le nostre forze, le nostre idee e i nostri obiettivi hanno unito persone di tutte le componenti e abbiamo protetto insieme tutta la Siria settentrionale e orientale.
Lei ha detto che alcuni punti sono stati discussi nei colloqui sull’integrazione, ma non sono ancora stati messi in pratica. Vorremmo chiedere quale sia lo status dell’YPJ in questo contesto. Alcune fonti hanno affermato che il governo di transizione è disposto a consentire alle YPJ di entrare a far parte dell’esercito come brigata speciale. Altre fonti suggeriscono che gli Stati Uniti abbiano appoggiato la posizione delle SDF sull’integrazione delle YPJ. Queste affermazioni sono accurate? E cosa può dirci sulle condizioni delle YPJ per la partecipazione al nuovo esercito?
Dalla caduta del regime ad oggi, le forze della coalizione hanno svolto un ruolo di mediazione. Nessuno può negarlo. Molti dialoghi hanno avuto luogo grazie alla loro mediazione. Ma siamo al tavolo delle trattative grazie ai nostri risultati. I nostri successi, la nostra forza e il nostro potere, lo sforzo di questa società: senza tutto questo, non saremmo qui a negoziare. Per anni abbiamo avuto un rapporto con la Coalizione nel contesto della nostra lotta comune contro l’ISIS. Questo ha creato una vera amicizia e comprensione. Ma sono stati i risultati di questa rivoluzione a portarci al tavolo delle trattative.
Noi, in particolare come YPJ, siamo presenti ai negoziati grazie a ciò che abbiamo realizzato. Tutti ci dicevano che non sarebbe stato possibile, che non ci avrebbero accettato. Ma non stiamo negoziando a titolo personale. Portiamo con noi i risultati di una rivoluzione. Chi siede di fronte a noi può vederlo.
Per questo motivo – e forse l’ho già detto prima – il cambiamento è una condizione del nostro tempo. Questo regime deve cambiare se stesso. Ora tutti ci chiedono se siamo state accettate perché siamo al tavolo delle trattative. Senza questa esperienza, senza questi risultati, non saremmo nemmeno entrate nella stanza. Non crediamo di meritare di essere al tavolo solo perché siamo donne. Ma se facciamo parte di questa rivoluzione, perché non dovremmo partecipare ai negoziati? Abbiamo partecipato dall’inizio alla fine. È un diritto perfettamente naturale.
Non voglio entrare nel merito della questione delle brigate e delle divisioni, perché si tratta di una conversazione, non di un accordo. Non sarebbe appropriato da parte mia dire qualcosa di concreto in questo momento. Ma abbiamo avanzato l’idea che le YPJ dovrebbero mantenere la loro autonomia. Oggi non siamo nemmeno completamente integrate nelle SDF. Naturalmente, quando c’è un interesse generale, se questa terra è sotto attacco, lavoreremo insieme per servire il nostro popolo. Ma per il resto, abbiamo il nostro comando, i nostri centri, le nostre istituzioni, e ci organizziamo e ci formiamo al loro interno. In questo modo, proteggiamo la nostra autonomia. Chi prende le decisioni e apporta cambiamenti istituzionali nelle nostre forze è il Comando delle donne. Il Comando generale delle SDF non può cambiare questo. Il generale Mazlum sarà anche il comandante generale delle SDF, ma non può costringermi a fare nulla. Non può apportare cambiamenti nelle nostre forze femminili né mandarmi in una posizione diversa. Chi può farlo? Il Comando delle donne. Questo significa che proteggiamo la nostra autonomia e libertà. Tutti devono saperlo.
La nostra visione come YPJ è che dobbiamo difendere questo status. Dobbiamo avere un posto nel sistema militare. Ci organizziamo sia orizzontalmente che verticalmente. Ad esempio, abbiamo anche una forza sociale, ci organizziamo anche nella vita civile. Esistiamo come forza autonoma all’interno della struttura delle SDF, ma ci sono donne anche in unità delle SDF non appartenenti alla YPJ: non è un esercito solo per uomini.
Per tredici anni abbiamo difeso questo Paese, ma nessuno a Homs, Hama, Suwayda o sulla costa aveva mai sentito parlare di noi. Tutti fuori dalla Siria, negli Stati Uniti, in Russia, in Europa, sapevano dell’esistenza delle YPJ, ma purtroppo, all’interno della Siria, le donne siriane non ci conoscevano. Ora che il regime è caduto, le donne di tutta la Siria possono vederci e molte vogliono organizzarsi come noi. Quindi, le YPJ si proteggeranno come forza femminile autonoma nel nord-est della Siria. Quando raggiungeremo un accordo con Damasco, le YPJ potranno svolgere un ruolo per tutta la Siria. Ma manterremo il nostro status speciale. Non rinunceremo alla nostra esistenza e alla nostra organizzazione. La necessità di autodifesa non scompare solo perché ci stiamo avvicinando alla pace. Forse non avremo più a che fare con lo stesso nemico, ma potrebbero esserci degli attacchi. Bisogna essere pronti. Soprattutto le donne: le donne non possono permettersi di rinunciare alla capacità di autodifesa, né in tempo di guerra né in tempo di pace. Questa è la nostra opinione come YPJ.
Lei stessa ha partecipato ai colloqui di integrazione con Damasco. Molti alti funzionari del governo di transizione provengono da un background islamista radicale, mentre lei rappresenta un movimento radicale per l’autodeterminazione e la liberazione delle donne. Come si comportano nei confronti di te e delle altre donne leader delle delegazioni della Amministrazione Autonoma Democratica del Nord ed Est di Siria (DAANES) e SDF? Pensi che l’esperienza di negoziare con le donne della DAANES e della SDF possa cambiare la loro visione del ruolo delle donne nella nuova Siria?
Stanno cercando di cambiare la loro immagine. Di conseguenza, quando interagiscono con noi, non succede nulla di insolito. Tutto rientra nel normale protocollo. Quando li salutiamo, ad esempio, alcuni ci stringono la mano e altri no. Da questo, come donne possiamo capire che provengono da un contesto piuttosto rigido. In definitiva, però, c’è un approccio molto pragmatico che ha un impatto sulle discussioni e sulla situazione generale. Si nota un ammorbidimento nella loro retorica quando discutiamo con loro. Ma nella pratica, dove non cambia nulla, si nota il loro radicalismo. Ci hanno fatto molte richieste che abbiamo soddisfatto. Più recentemente, sulla questione dell’integrazione militare, abbiamo presentato loro nomi e idee. Nei media ci accusano di ostacolare i colloqui. Ma in realtà sono loro che rallentano i negoziati e si rifiutano di rispondere alle nostre proposte.
Se questo governo riuscirà a credere nell’esistenza di tutte le fedi, le lingue e le comunità siriane, se riuscirà a rendersi conto che questo pluralismo esiste, allora la Siria potrà diventare un paese democratico. Molti siriani arabi sunniti, che costituiscono la maggioranza del Paese, non accettano questa mentalità esclusiva. Non è solo una questione che riguarda le minoranze religiose o etniche. Se il governo di transizione riuscirà a cambiare se stesso e ad accettare le realtà del XXI secolo e le esigenze della società, la Siria vivrà in pace. Se non riuscirà a cambiare, vedrà solo crisi più gravi.
Vorrei dire una cosa importante: questo governo non è completamente indipendente. Ci sono molti paesi stranieri che vogliono influenzare i colloqui sull’integrazione. Non voglio nominarli qui. Se la Siria deve essere un paese per tutti i siriani, queste forze straniere dovrebbero smettere di cercare di influenzare i negoziati. Lasciamo che il governo di transizione condivida le proprie opinioni, libero dall’influenza di punti di vista esterni. È chiaro che il governo è sotto pressione da parte delle forze straniere. Senza questo, un accordo sarebbe stato più facile.
Noi [i predecessori delle SDF e del governo di transizione] abbiamo combattuto gli uni contro gli altri nel 2012 e nel 2013, ma oggi stiamo dialogando. Non è una novità nel mondo. Coloro che combattono le guerre più brutali gli uni contro gli altri si riuniscono per negoziare la pace.
In molti paesi europei, come la Svizzera, molti popoli vivono insieme e ogni popolo ha i propri diritti. A volte possono essere meno di un milione, ma ottengono comunque i loro diritti. Perché la Siria non potrebbe farlo? Quale danno causerebbe che lo renderebbe impossibile? Questo governo deve ascoltare la voce del popolo, non le influenze straniere. In questo modo, possiamo costruire insieme una Siria pacifica e democratica.
Molti qui dicono che Jabhat al-Nusra si sarebbe rifiutato di parlare con i combattenti dell’YPJ durante gli scontri e i negoziati del 2012-2013 a cui lei ha accennato; secondo quanto riferito, avrebbero chiesto di negoziare con gli uomini. Cosa può dirci al riguardo?
Sì, è vero, all’epoca non volevano parlare con noi. Ora, a causa di tutto ciò che è cambiato, devono farlo.
Ma sapete, anche nel 2012, quando ero ad Afrin, mi sono seduta con loro in più di un’occasione. Ovviamente era segreto, ma abbiamo dialogato, anche se alla fine loro preferivano parlare con gli uomini.
C’è qualcos’altro che vorrebbe aggiungere?
In qualsiasi paese, rivoluzione o processo di pace, se le donne non sono presenti, non è possibile trovare una soluzione.
La nostra rivoluzione lo ha dimostrato. Le donne che non potevano uscire di casa senza permesso ora possono fare politica, diplomazia, lavoro culturale. Questa libertà prima non esisteva. Ma la nostra mentalità e il nostro sistema hanno creato vera fiducia e convinzione. La leadership delle donne è l’aspetto di questa rivoluzione che ha suscitato maggiore interesse. Sia in guerra che in diplomazia, se le donne organizzate non sono presenti, non raggiungeremo una soluzione.
Il XXI secolo sarà il secolo delle donne e le soluzioni ai suoi problemi possono essere trovate con la leadership delle donne. In un luogo in cui le donne possono organizzarsi e guidare, il successo è possibile. Ma i luoghi in cui l’esistenza, le voci e le opinioni delle donne sono negate sono destinati alla distruzione.
La nostra rivoluzione ha raggiunto oggi un certo livello. Domani molte cose potrebbero cambiare. Potrebbe esistere con un nome diverso o un sistema diverso. I nostri obiettivi non cambieranno, ma molte cose che sono esistite fino ad oggi potrebbero apparire molto diverse. Perché questo processo, questo momento, questo secolo sono una fase di cambiamento. Ma ciò che è importante è che non deviamo dal percorso di coloro che si sono battuti per la democrazia, il pluralismo e tutti i nostri valori.
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Las YPJ en la Siria de hoy
Proponemos la traducción de esta reciente entrevista a Rohilat Afrin, Comandanta General de las Unidades de Defensa de las Mujeres (YPJ), una de las vértebras más importantes del extraordinario proceso político de la Administración Autónoma del Norte y Este de Siria. Consideramos que las palabras de la Comandanta nos ponen al día y arrojan luz sobre las complejas relaciones de poder en el escenario de la Siria post-Assad, y nos recuerdan la necesidad de mantener un alto nivel de organización en torno a los logros sociales de la «Revolución de Rojava».
Rohilat Afrin: «Estamos en juego gracias a nuestros propios esfuerzos»
Por Meghan Bodette y Aras Yussef, 11 de diciembre de 2025
Esta entrevista es un producto del Instituto Kurdo para la Paz en Qamishlo, que proporciona a los responsables políticos y al público información práctica y con arraigo local sobre cuestiones críticas a las que se enfrentan el noreste de Siria, la región y el mundo. La entrevista ha sido traducida del kurdo al inglés y ligeramente editada para mayor claridad. Traducción al español de Nodo Solidale.
Instituto Kurdo para la Paz: Gracias por su tiempo y sus opiniones. ¿Puede presentarse y explicar el papel que desempeñan las Unidades de Defensa de las Mujeres (YPJ) en las Fuerzas Democráticas Sirias (SDF) y en el norte y el este de Siria en general?
Rohilat Afrin: Soy Rohilat Afrin, comandante general de las YPJ. También soy miembro del mando general de las SDF. Las YPJ llevan existiendo de alguna forma desde hace casi trece años, es decir, desde el inicio de la Revolución de Rojava. Si queremos hablar oficialmente, las YPJ llevan existiendo desde hace 11 o 12 años.
Las YPJ se convirtieron en parte de la defensa de nuestra sociedad. Por primera vez, un ejército de mujeres fue capaz de plantar cara a una fuerza invasora y opresora. Dado que las YPJ se basan en el concepto de autodefensa, no hubo ninguna reacción social contra la participación de las mujeres en las fuerzas armadas. Esta sociedad siempre ha necesitado la capacidad de defenderse. Si miramos la historia, el pueblo kurdo y el pueblo sirio han pasado por muchas guerras, pero nunca se desarrolló ninguna fuerza que pudiera asumir la responsabilidad de la defensa de su tierra y su país. Ciertamente, la gente se alistó y se convirtió en soldados. Pero el servicio militar los separó de sí mismos, de su tierra, de su causa, de su sociedad. Sirvieron a los regímenes bajo los que vivían.
La YPJ es importante como fuerza armada, como modelo y por su impacto en la sociedad. Porque, ¿cuál es la necesidad más fundamental de las mujeres en todo el mundo? La autodefensa. La YPJ se organizó inicialmente en torno a esta idea y este principio, no en torno a las armas. Elegimos la autodefensa como objetivo, con la convicción de nuestro conocimiento y nuestra capacidad como mujeres.
La existencia de las YPJ en Rojava, en el noreste de Siria, es un soplo de aire fresco para todas las mujeres que sufren en el siglo XXI. No solo para las mujeres kurdas, no solo para las mujeres de nuestra región, sino para todas las mujeres. En muy poco tiempo, nuestro modelo, nuestro ejército y nuestras ideas se dieron a conocer en muchos países extranjeros. Nunca estuvimos en Estados Unidos. Pero nuestra perspectiva ha llegado a Estados Unidos. No estuvimos en Europa, pero nuestra perspectiva llegó a Europa. No estuvimos en otras partes de Oriente Medio, pero nuestra perspectiva se ha extendido por toda la región. En el siglo XXI, quedó claro que las mujeres y la sociedad necesitaban algo así. Esta necesidad llegó a todas las mujeres.
Nuestra sociedad kurda tenía cierta experiencia en esto. Muchas de nuestras amigas, vecinas y parientes habían ido a luchar, por ejemplo, con las YJA-STAR [el brazo armado femenino del PKK]. Esto existía. Abrimos los ojos a ello de esta manera: ¿A dónde fue esta mujer? ¿Por qué tomó las armas? Puedo decir que el nivel de organización militar de las mujeres en Kurdistán tuvo un impacto en nosotras. En particular, vimos que cada mujer que abandonó su hogar para luchar, que se fue a Irak, a Turquía, lo hizo para defender todo el Kurdistán y a todo el pueblo kurdo.
Con su motivación, su filosofía y su perspectiva de autodefensa, las YPJ lograron cerrar la puerta a un grupo como el ISIS durante los años más largos y oscuros de la guerra en Siria. El ISIS parecía imparable en todo el mundo. Pero aquí, una lucha librada bajo el liderazgo de las mujeres fue capaz de derrotar al ISIS. Esto no es algo normal. Quizás nos hemos acostumbrado a ello, porque vivimos en esta realidad, es parte de lo que somos. Pero en otros lugares, se convirtió en una historia, una leyenda, un tema de interés. ¿Cómo lo lograron esas mujeres? Puedo decirles cómo.
Nosotras, como YPJ, no empezamos con armas. Quiero destacar este hecho. Empezamos con la organización. Nuestra mayor arma al principio fue nuestra organización. De dos, tres, cuatro mujeres, pasamos a ser cientos y cientos.
Al principio, dijimos que las mujeres teníamos que estar allí, en las fuerzas armadas. Veíamos a diez hombres, veinte hombres, toda la academia militar, y entre ellos éramos quizás cuatro o seis mujeres. No había muchas mujeres en absoluto. Pero teníamos la convicción de que las mujeres teníamos que estar allí y hacer este trabajo, que nosotras, como mujeres, teníamos que unirnos. Y cuando la sociedad vio que teníamos un objetivo, que haríamos cualquier cosa para luchar por proteger nuestra tierra, nuestro pueblo, nuestras familias, empezaron a apoyarlo.
Así que puedo decir que las YPJ, tanto como ejército como filosofía, alcanzaron este nivel gracias a su capacidad de organización. Si no hubieran tenido esta fuerza organizativa, si no hubieran tenido una base filosófica y teórica, y si no hubieran elegido a los líderes adecuados, quizá no se habrían convertido en el ejército que son hoy. Estas cosas son fundamentales. Para convertirse en un ejército, se necesita un objetivo y una organización. En el siglo XXI, las mujeres de todo el mundo están aprendiendo a defenderse gracias a las YPJ. Nos hemos convertido en una inspiración para todas las mujeres, no solo para las de Kurdistán, Rojava o Siria. En cada época, los pueblos y las sociedades tienen algún tipo de necesidad y se desarrolla un liderazgo para satisfacerla. Ahora, podemos decir que las YPJ están desempeñando ese papel para las mujeres.
¿Puede dar un ejemplo concreto del impacto de las fuerzas exclusivamente femeninas en la seguridad, la gobernanza o la sociedad? Es decir, ¿qué cosas hace la YPJ que las unidades masculinas o mixtas no podrían hacer o no harían tan bien?
Le contaré una historia que he compartido muchas veces. Abrimos nuestra primera academia para mujeres en Afrin. Queríamos que las mujeres aprendieran a defenderse en todos los aspectos. En el programa, por ejemplo, dijimos que las mujeres tendrían que hacer ejercicio para desarrollar su fuerza física. Las mujeres también tenían que aprender a desarrollar su fuerza mental a través de la educación política e ideológica. Y, en tercer lugar, habría educación militar. Tenían que aprender a utilizar la tecnología que tendrían en sus manos. Nunca se nos ocurrió empezar con las armas. Antes de tomar las armas, las mujeres tenían que comprender la política, la ideología y la filosofía.
Reunimos a un grupo de entre 30 y 35 mujeres. Entre ellas había una madre que debía de tener unos 50 años. Era de Amude. Al principio, discutimos entre nosotros si sería capaz de participar en todas las actividades de la academia. Hablamos con ella y le dijimos que tendríamos que rechazarla: el programa era difícil, las condiciones en la academia eran duras y nos preocupaba que fuera demasiado para ella. Por supuesto, ella nos dio una lección allí mismo. «¡Quiénes son ustedes para echarme de esta formación!», respondió.
La filosofía nos dice que lo primero que hay que hacer es conocerse a uno mismo. Esta madre, que nos preguntó quiénes éramos nosotros para detenerla, que dijo que ella también quería aprender a luchar, sabía quién era, y ese día nos dio a todas una lección de autodefensa. Dijo que no se iría de la academia hasta que aprendiera a usar su arma, y con esa determinación, no se fue. Nuestra fuerza y capacidad organizativa como YPJ proviene de mujeres como ella.
La autodefensa es la parte más importante de la civilización. No solo es necesaria cuando una sociedad está en guerra. Las amenazas provienen de la naturaleza, de los animales, de otras personas, de cualquier lugar; hay que ser capaz de proteger a la sociedad de cualquier peligro. Hoy en día, vemos que las personas menos protegidas de la sociedad son las mujeres. Las mujeres se enfrentan a la violencia doméstica, a las violaciones, a la desigualdad, y se las menosprecia cuando piden que se ponga fin a la injusticia. Algunos ataques contra las mujeres pueden no ser físicos, pero la base de la violencia física es la idea de que alguien es inferior. Si se niegan e ignoran tus derechos, tu cuerpo, tu idioma, tu cultura, tu opinión, puedes ser atacada.
Las YPJ han cambiado ese status quo. Decimos que, dondequiera que una mujer se enfrente a la violencia —en su casa, por parte de delincuentes en la calle, por parte de una mentalidad que niega a las mujeres la igualdad humana—, debe poder defenderse.
Empezamos nuestro trabajo sobre esta base. Y, por supuesto, en última instancia, si hay un ataque de un enemigo extranjero, también debe tomar las armas y defenderse. Antes, las mujeres podían haber abandonado sus hogares y comunidades, haber dejado esta región y haberse ido a otras partes del Kurdistán para luchar. Quizás su lucha no tuvo tanto impacto en la comunidad en general. Pero las YPJ son diferentes. Defendimos nuestra sociedad desde adentro. No esperamos a que nadie viniera de fuera a salvarnos. Y, por supuesto, si esto no estuviera conectado con una ideología y un objetivo, no habría sido posible. Esta conexión, esta base, es la razón por la que nadie ha podido destruir nuestra organización en 12 años. El papel de las YPJ se hizo evidente por primera vez en la guerra contra el ISIS y ha continuado hasta hoy.
La caída del régimen de Assad en Siria en 2024 y la llegada de fuerzas islamistas radicales hicieron que todo el mundo se preguntara: ¿cuál es el futuro de las YPJ? No solo las YPJ, sino también el pueblo, todo el norte y el este de Siria, el sistema autónomo de aquí. ¿Cómo podríamos vivir bajo su dominio? Ahora se enfrentan en Siria dos sistemas muy diferentes. Uno es un sistema duro y fundamentalista. El otro, nuestra administración, se basa en la voluntad de nuestro pueblo.
Tal y como lo describes, Siria está ahora dividida entre dos sistemas políticos muy diferentes. Estos dos sistemas han estado trabajando para unirse bajo el marco del acuerdo de integración del 10 de marzo de 2025 firmado por el comandante en jefe de las SDF, Mazlum Abdi, y el presidente sirio, Ahmed al-Sharaa. En general, ¿cómo avanzan las conversaciones de integración? ¿Cuál es el papel de las mujeres y las estructuras de mujeres en ellas?
Ha pasado un año desde la caída del régimen. Ha habido muchos cambios en ese tiempo. Una vez más, personas inocentes se convirtieron en víctimas de la guerra. Por ejemplo, ha pasado un año desde que los desplazados de Afrin fueron expulsados de Shahba. El Estado no se ve tan afectado. Cuando la gente es atacada, asesinada, obligada a emigrar, el Estado no escucha.
Ahora, la gran pregunta es esta. La fuerza que ahora domina Siria tiene un pasado como entidad radical que devastó y oprimió a personas inocentes. Proviene del yihadismo, de Al Qaeda. A partir de ahí, ¿adónde ha ido y adónde irá? ¿Cómo llegó al poder? ¿Quién la apoyó? ¿Cómo se ha legitimado tanto?
Tenemos que entender esto. Aunque, por supuesto, cuando cualquier fuerza se convierte en un Estado, nadie presta mucha atención a lo que pudo haber sido antes. Hace 60 años, se creó un sistema centralizado en Siria. El pueblo sirio sufrió de todas las formas imaginables a causa de este sistema. Ahora, con la llegada del gobierno de transición de Sharaa, debemos examinar esta historia.
La comunidad internacional también puede evaluar la situación. Por nuestra parte, como Siria del Norte y del Este, las SDF y las YPJ, hemos participado en muchos diálogos y negociaciones. El resultado más importante de estos compromisos fue el “Acuerdo del 10 de Marzo”. Este acuerdo se alcanzó sobre la base del principio de que esta sociedad, este componente, su lengua, su cultura, sus derechos y su existencia serán reconocidos en la Constitución.
La garantía más importante para cualquier sociedad son los derechos constitucionales. Si una comunidad, un pueblo, una lengua o un componente no están reconocidos por la Constitución, su existencia en su país se ve amenazada. Si no tienes presencia en las asambleas y los parlamentos, no existes.
Ha habido muchos cambios en el siglo XXI. El propio gobierno de transición no oculta lo que solía ser. Primero fue el Estado Islámico, luego Al Qaeda, Al Nusra, luego HTS, y HTS llegó a convertirse en un gobierno, un Estado. Eso es un cambio, y es un cambio que no puede ser meramente cosmético. El mundo debe creerlo. Si quieren alejarse de una historia tan oscura y convertirse en los representantes de una república, entonces tienen que reconocer los derechos de todos los componentes.
Durante trece años hemos librado esta lucha. Muchas personas han dado su vida. Podemos decir que ha habido un cambio, que el antiguo sistema ha sido destruido, pero eso por sí solo no es suficiente. Estamos preparados para vivir en una Siria unificada, pero debe ser una Siria democrática. Esta Siria democrática debe proteger los derechos de todos sus pueblos: kurdos, árabes, sirios, musulmanes, cristianos, drusos. Y la mejor garantía de esta protección es el reconocimiento de todos los componentes en la Constitución. La integración comienza aquí.
Al principio, dijeron que cada soldado de las SDF debía unirse al ejército uno por uno. Pero las SDF no pueden unirse a este ejército como individuos. Les dijimos: «De acuerdo, estamos dispuestos a unirnos al ejército, pero ¿a qué ejército quieren que nos unamos? ¿Existe algo llamado ejército en Siria? ¡No! Hay más de 100 milicias. Cada uno forma su grupo y le da un nombre. Abu Amsha tiene una milicia, Abu Shaqra tiene una milicia, Hamzat tiene una milicia. ¿Se puede llamar a eso un ejército?
En toda Siria, el único ejército que tiene estructura, experiencia y capacidades es el SDF. Durante trece años, esta fuerza luchó contra el ISIS, contra las potencias extranjeras que nos atacaron. Decimos que el SDF puede ser un modelo para el ejército sirio. ¿Por qué eso perjudicaría a Siria? No perjudicará en absoluto la unidad de Siria. Las SDF están aquí hoy, pero mañana podríamos proteger Damasco. Podríamos proteger Alepo, Suwayda o la costa. El modelo de las SDF puede ser un modelo para el nuevo ejército sirio. Cuando decimos esto, no estamos diciendo que Siria deba dividirse o que queramos vivir separados. No decimos que tengamos que ser independientes. Lo que pedimos es una Siria democrática que reconozca los derechos de todos sus componentes.
En cuanto a la integración, empezamos juntos, pero aún no hemos llegado a un acuerdo. Recientemente, hubo algunos debates sobre cómo podríamos organizarnos como parte del nuevo ejército. Pero la cuestión fundamental son las garantías constitucionales. Cuando las tengamos, podremos hablar de las SDF, de nuestras instituciones, de todo.
La época en la que vivimos exige que todos cambien. En Siria, el antiguo sistema cayó. Ya no vivimos en la era anterior a 2011. Cuando Assad estaba en el poder, tenía un Estado centralizado. Ese Estado fue destruido. Si el mismo sistema centralizado intenta reconstruirse con un color diferente, eso no es un cambio real.
Todo esto quiere decir que sí, se están llevando a cabo negociaciones, pero aún no hemos acordado medidas prácticas que tomar juntos. Sobre la mesa, todo está aprobado, pero una vez que nos levantamos de la mesa, la situación sigue siendo la misma. Lo vemos especialmente por parte del gobierno de transición. Permítanme repetirlo: nuestro objetivo no es la división de Siria. Nuestro objetivo es una Siria democrática. Si se fijan en las SDF, verán que han creado un ejército que incluye a todos los componentes. Las YPJ también son así. Mujeres de todos los componentes sirios se han unido a las YPJ. Podemos poner esta experiencia al servicio de toda la sociedad siria. Por ejemplo, cuando el ISIS estaba en Deir Ezzor, no dijimos «Deir Ezzor es una región árabe, no iremos allí». Luchamos contra el ISIS dondequiera que fuera y dimos miles de mártires por hacerlo. Raqqa tampoco es una ciudad kurda. Nuestras fuerzas, nuestras ideas y nuestros objetivos unieron a personas de todos los componentes y protegimos juntos todo el norte y el este de Siria.
Usted ha dicho que algunos puntos se han debatido en las conversaciones de integración, pero aún no se han puesto en práctica. Nos gustaría preguntarle sobre la situación de las YPJ en este contexto. Algunas fuentes han afirmado que el Gobierno de transición está dispuesto a permitir que las YPJ se unan al ejército como brigada especial. Otras afirmaciones sugieren que Estados Unidos ha respaldado la posición de las SDF sobre la integración de las YPJ. ¿Son ciertas estas afirmaciones? ¿Y qué puede decirnos sobre las condiciones de las YPJ para participar en el nuevo ejército?
Desde la caída del régimen hasta hoy, las fuerzas de la Coalición han desempeñado un papel mediador.
Nadie puede negarlo. Se han celebrado muchos diálogos con su mediación. Pero estamos en la mesa gracias a nuestros propios logros. Nuestros éxitos, nuestra fuerza y nuestro poderío, el esfuerzo de esta sociedad… Sin eso, no estaríamos en estas negociaciones. Durante años, hemos mantenido una relación con la Coalición en el contexto de nuestra lucha conjunta contra el ISIS. Esto ha creado una verdadera amistad y comprensión. Pero los logros de esta revolución son los que nos han llevado a la mesa.
Nosotros, como YPJ en particular, estamos presentes en las negociaciones gracias a lo que hemos logrado. Todos nos decían que no sería posible, que no nos aceptarían. Pero no estamos negociando a título personal. Traemos con nosotros los logros de una revolución. Los que se sientan frente a nosotros pueden verlo. Por esta razón, y tal vez ya lo haya dicho antes, el cambio es una condición de nuestro tiempo. Este régimen tiene que cambiar. Ahora, todo el mundo nos pregunta si nos han aceptado porque estamos en la mesa. Sin esta experiencia, sin estos logros, ni siquiera habríamos llegado a la sala. No creemos que merezcamos estar en la mesa solo por ser mujeres. Pero si formamos parte de esta revolución, ¿por qué no íbamos a formar parte de las negociaciones? Hemos participado desde el principio hasta el final. Es un derecho perfectamente natural. No quiero entrar en el tema de las brigadas y las divisiones, porque eso es una conversación, no un acuerdo. No sería apropiado que dijera nada concreto ahora. Pero hemos planteado la idea de que las YPJ deben mantener su autonomía. Hoy en día, ni siquiera estamos totalmente integradas en las SDF. Por supuesto, cuando hay un interés general, si esta tierra es atacada, trabajaremos juntas para servir a nuestro pueblo. Pero, por lo demás, tenemos nuestro propio mando, nuestros propios centros, nuestras propias instituciones, y nos organizamos y educamos dentro de ellas. De esta manera, protegemos nuestra autonomía. Las que toman las decisiones y los cambios institucionales en nuestras fuerzas son el Mando de las Mujeres. El Mando General de las SDF no puede cambiar esto. El general Mazlum puede ser el comandante general de las SDF, pero no puede obligarme a hacer nada. No puede hacer ningún cambio en nuestras fuerzas femeninas ni enviarme a un puesto diferente. ¿Quién puede hacerlo? El Mando de las Mujeres. Esto significa que protegemos nuestra autonomía y libertad. Todo el mundo tiene que saberlo. Nuestra opinión como YPJ es que debemos defender este estatus. Debemos tener un lugar en el sistema militar. Nos organizamos tanto horizontal como verticalmente. Por ejemplo, también tenemos una fuerza social, nos organizamos en la vida civil. Existimos como una fuerza autónoma dentro de la estructura de las SDF, pero también hay mujeres en unidades de las SDF que no pertenecen a la YPJ; no es un ejército solo para hombres. Durante trece años hemos defendido este país, pero nadie en Homs, Hama, Suwayda o la costa había oído hablar de nosotras. Todo el mundo fuera de Siria, en Estados Unidos, Rusia, Europa, sabía que existía la YPJ, pero, por desgracia, dentro de Siria, las mujeres sirias no nos conocían. Pero ahora que el régimen ha caído, las mujeres de todas las partes de Siria pueden vernos y muchas quieren organizarse como nosotras. Por lo tanto, las YPJ se protegerán a sí mismas como una fuerza femenina autónoma en el noreste de Siria. Cuando lleguemos a un acuerdo con Damasco, las YPJ podrán desempeñar un papel en toda Siria. Pero mantendremos nuestro estatus especial. No renunciaremos a nuestra existencia ni a nuestra organización. La necesidad de autodefensa no desaparece solo porque nos acerquemos a la paz. Quizás no volvamos a enfrentarnos al mismo enemigo, pero podría haber ataques. Hay que estar preparadas. Especialmente las mujeres: las mujeres no pueden permitirse prescindir de la capacidad de autodefensa, ni en tiempos de guerra ni en tiempos de paz. Esta es nuestra opinión como YPJ.
Usted misma ha participado en las conversaciones de integración con Damasco. Muchos altos funcionarios del gobierno de transición provienen de un entorno islamista radical, mientras que usted representa un movimiento radical por la autodeterminación y la liberación de las mujeres. ¿Cómo se dirigen a usted y a otras mujeres líderes de las delegaciones de DAANES y SDF? ¿Cree que la experiencia de negociar con mujeres de DAANES y SDF podría estar cambiando su opinión sobre el papel de la mujer en la nueva Siria?
Están tratando de cambiar su imagen. Como resultado, cuando se relacionan con nosotras, no ocurre nada inusual. Todo se desarrolla dentro del protocolo normal. Cuando les saludamos, por ejemplo, algunas nos dan la mano y otras no. A partir de esto, como mujer, se puede entender que provienen de un entorno bastante estricto. Sin embargo, en última instancia, hay un enfoque muy pragmático que tiene un impacto en las discusiones y en la situación general. Se puede observar un ablandamiento en su retórica cuando discutimos temas con ellos. Pero en la práctica, cuando nada cambia, se puede ver su radicalismo. Nos han hecho muchas peticiones que hemos cumplido. Más recientemente, en lo que respecta a la integración militar, les presentamos nombres e ideas. En los medios de comunicación, nos acusan de retrasar las conversaciones. Pero, en realidad, son ellos los que ralentizan las negociaciones y se niegan a responder a nuestras propuestas. Si este Gobierno puede creer en la existencia de todas las religiones, lenguas y comunidades de Siria, si puede darse cuenta de que este pluralismo existe, entonces Siria puede ser un país democrático. Muchos sirios árabes suníes, que son la mayoría del país, tampoco aceptan esta mentalidad excluyente. No es solo una cuestión de minorías religiosas o étnicas. Si el Gobierno de transición puede cambiar y aceptar las realidades del siglo XXI y las necesidades de la sociedad, Siria vivirá en paz. Si no puede cambiar, solo verá crisis mayores. Voy a decir algo importante aquí: este Gobierno no es completamente independiente. Hay muchos países extranjeros que quieren influir en las conversaciones de integración. No quiero nombrarlos aquí. Si Siria quiere ser un país para todos los sirios, estas fuerzas extranjeras deben dejar de intentar influir en las negociaciones. Dejemos que el gobierno de transición comparta sus propias opiniones, libre de la influencia de opiniones externas. Está claro que el gobierno está bajo la presión de fuerzas extranjeras. Sin esto, un acuerdo podría haber sido más fácil. Nosotros [los predecesores de las Fuerzas Democráticas Sirias y el Gobierno de transición] luchamos unos contra otros en 2012 y 2013, pero hoy estamos dialogando. Esto no es algo nuevo en el mundo. Quienes libran las guerras más brutales entre sí se unen para hacer la paz. En muchos países europeos, como Suiza, conviven muchos pueblos, y cada uno de ellos tiene sus derechos. A veces pueden ser menos de un millón, pero obtienen sus derechos de todos modos. ¿Por qué no podría Siria hacer lo mismo? ¿Qué daño causaría que lo hiciera imposible? Este Gobierno debe escuchar la voz del pueblo, no las influencias extranjeras. De esta manera, podremos construir juntos una Siria pacífica y democrática.
Muchas personas aquí dicen que Jabhat al-Nusra se negó a hablar con las combatientes de las YPJ durante los enfrentamientos y negociaciones de 2012-2013 a los que usted alude; al parecer, exigían negociar con hombres. ¿Qué puede decirnos al respecto?
Sí, es cierto, en aquel entonces no querían hablar con nosotras. Ahora, debido a todo lo que ha cambiado, tienen que hacerlo. Pero, ¿sabes?, incluso en 2012, cuando estaba en Afrin, me senté con ellos en más de una ocasión. Era en secreto, por supuesto, pero mantuvimos un diálogo, aunque al final ellos preferían hablar con hombres.
¿Hay algo más que quieras añadir?
En cualquier país, revolución o proceso de paz, si las mujeres no están presentes, no es posible encontrar una solución. Nuestra revolución lo demostró. Las mujeres que no podían salir de sus casas sin permiso ahora pueden dedicarse a la política, la diplomacia y el trabajo cultural. Esta libertad no existía antes. Pero nuestra mentalidad y nuestro sistema crearon una confianza y una convicción reales. El liderazgo de las mujeres es el aspecto de esta revolución que más interés suscitó. Tanto en la guerra como en la diplomacia, si las mujeres organizadas no están presentes, no llegaremos a una solución. El siglo XXI será el siglo de las mujeres, y las soluciones a sus problemas se pueden encontrar con el liderazgo de las mujeres. En un lugar donde las mujeres pueden organizarse y liderar, el éxito es posible. Pero los lugares donde se niega la existencia, las voces y las opiniones de las mujeres se encaminan hacia la destrucción.
Nuestra revolución ha alcanzado hoy un cierto nivel. Mañana podrían cambiar muchas cosas. Podría existir con un nombre diferente o un sistema diferente. Nuestros objetivos no cambiarán, pero muchas cosas que han existido hasta hoy podrían ser muy diferentes. Porque este proceso, este momento, este siglo es una época de cambios. Pero lo importante es que no nos desviemos del camino de quienes defendieron la democracia, el pluralismo y todos nuestros valores.

