di Marco Cavinato
[Il 20 gennaio il laboratori dell’Università di Innsbruck che stavano analizzando i presunti resti degli studenti messicani di Ayotzinapa, ufficialmente desaparecidos dalla notte del 26 settembre, hanno confermato l’impossibilità di identificarli perché l’eccessivo calore ha distrutto il DNA. Nei prossimi tre mesi saranno realizzate prove di altro tipo, ma non c’è nessuna certezza sui risultati e i resti, in seguito agli studi, verrano perduti per sempre. I genitori dei ragazzi, tantissime organizzazioni e i movimenti sociali chiedono a gran voce alla procura l’apertura di nuove indagini visti i poveri riscontri ottenuti fino ad ora. Sono tante le ricerche independenti, accademiche e giornalistiche, e molti i settori dell’opinione pubblica che puntano il dito contro l’esercito, un’istituzione che pare intoccabile. Dopo dure proteste e l’invasione popolare della caserma del 27esimo battaglione a Iguala lo scorso 12 gennaio, il primo ministro Osorio Chong ha aperto alla possibilitò che i genitori e la Commissione Nazionale dei Diritti Umani entrino in quella struttura, ma il movimento chiede di aprire tutte le caserme del paese. Su un altro fronte continua il dibattito sulle proposte di rifondazione del Messico e di elezioni per un’assemblea costituente avanzate da Javier Sicilia, il vescovo Raul Vera, da padre Solalinde e dagli zapatisti. In attesa della VIII Giornata d’Azione Globale per Ayotzinapa del 26 gennaio pubblichiamo questo articolo di Marco Cavinato che dal Chiapas racconta la lotta per i desaparecidos e le vittime di Ayotzinapa soffermandosi sul punto di vista e le azioni dei genitori degli studenti della scuola normale Raul Isidro Burgos. F. L.]
Sono passati quasi quattro mesi dalla scomparsa di 43 studenti della Escuela Normal Rural di Ayotzinapa. Più di cento giorni di dolore e rabbia per le madri e i padri dei ragazzi, ma anche di lotta e azioni dirette, a volte con in testa proprio quei familiari che di “superare il dolore” (come li ha invitati a fare nientemeno che il presidente Enrique Peña Nieto) e di stare zitti proprio non sono capaci. Questi genitori che dall’inizio si sono mobilitati tra appelli, manifestazioni e carovane perché i loro figli non venissero dimenticati come quasi sempre succede in un paese troppo abituato e impotente alla violenza e all’impunità di stato, sono diventati il simbolo di un Messico che lotta senza vendersi e che non ha più voglia ne pazienza per stare in silenzio.
In occasione del primo Festival mondiale delle Resistenze e Ribellioni contro il capitalismo, lanciato dall’EZLN e dal CNI (Congreso Nacional Indígena), sono stati proprio i familiari di Ayotzinapa gli invitati speciali a cui la commissione zapatista ha ceduto il proprio posto di rappresentanza. Il festival è durato due settimane durante le quali sono state condivise le molteplici esperienze di lotta e di resistenza a megaprogetti, imprese, repressione e violenza di stato, ma anche e soprattutto strategie comuni e proposte per il futuro. Nelle sei tappe del festival, dalla comunità in resistenza di Xochicuautla fino a San Cristobal de Las Casas, le parole e le lacrime dei familiari e degli studenti compagni dei desaparecidos di Ayotzinapa hanno scosso i tremila partecipanti all’evento: sono stati loro con il loro dolore, la loro rabbia ma soprattutto con la loro determinazione nel continuare sulla strada della lotta i protagonisti di questo festival.
Nonostante la forza di questi eventi dove convergono centinaia di esperienze differenti di lotta e di resistenza, questi uomini e queste donne hanno imparato (se già non lo sapevano) che nel Messico di oggi come altrove non basta parlare e denunciare pubblicamente una situazione per poter auspicare una svolta. Stanchi dell’inconsistenza delle indagini ufficiali, che in tutto questo tempo non hanno saputo trovare gli studenti né tantomeno fornire una pista verosimile sui fatti e sui responsabili, Il 14 gennaio è iniziata ufficialmente la “búsqueda ciudadana”, la ricerca dei desaparecidos da parte della società civile guidata dai familiari e dai compagni degli studenti. La ricerca autonoma che conducono familiari, studenti e tutti coloro che attraverso varie forme li appoggiano parte dal presupposto che sono sempre più gli indizi che lasciano pensare a un coinvolgimento diretto delle forze militari nella sparizione.
Mercoledì 12 gennaio hanno lanciato un appello e si sono presentati davanti alla caserma del ventisettesimo battaglione di fanteria di Iguala dove di fronte agli uomini in uniforme schierati per non farli passare, hanno chiesto di poter entrare per cercare i loro figli, ricevendo per tutta risposta l’arrivo di rinforzi davanti alle entrate. Quando la situazione ha iniziato a farsi tesa i padri e le madri, che hanno tra i quaranta e i sessant’anni e non sono certo abituati a fronteggiare militari, sono rimasti al fianco dei manifestanti a volto coperto in mezzo al fumo dei lacrimogeni a prendersi le bastonate (sono due i genitori feriti mentre almeno dieci gli studenti), cercando insieme a questi di entrare “sfondando” le reti di filo spinato.
Anche un camion della Coca Cola è stato utilizzato dagli studenti per lo stesso scopo, e fino all’ultimo i familiari assieme ai manifestanti hanno cercato di entrare fisicamente nella caserma, nonostante la dura risposta repressiva di soldati e poliziotti.
Recentemente le ricerche del padre di uno dei ragazzi sugli ultimi movimenti del cellulare del figlio attraverso il gps pare che abbiano dimostrato che l’ultimo segnale sia stato registrato in una caserma di Iguala, ma a parte le dinamiche dei fatti che già da un pezzo dimostrano che l’esercito era quantomeno a conoscenza degli spostamenti degli studenti, sono questi quasi quattro mesi di indagini inconcludenti (con almeno quattro versioni ufficiali facilmente smontate), su un caso che ha suscitato reazioni e mobilitazioni a livello internazionale, che dovrebbero far dubitare anche i più fermi credenti nella buona fede dei militari.
In queste settimane si sta delineando uno scenario che comprende (solo per citarne alcune) presunti forni crematori all’interno delle caserme, la protezione data dai militari al criminale Cesar Nava che pare aver avuto un ruolo fondamentale nei fatti del 26 settembre, o la mancanza totale di intervento dell’esercito rispetto alla collusione tra il cartello Guerreros Unidos e la polizia di Iguala e Colula denunciata da un’agente di polizia già nel 2013.
Comunque niente di nuovo, se si pensa a tutti i fatti che negli ultimi decenni hanno visto l’esercito messicano come protagonista delle più gravi violazioni di diritti umani: dalle detenzioni arbitrarie in territorio militare alle sparizioni forzate passando per sistematiche pratiche di tortura e esecuzioni extragiudiziali.
È per tutti questi motivi che la richiesta dei familiari di aprire le caserme, come dimostrazione di trasparenza e di supporto nel chiarimento di fatti che riguardano un crimine irrisolto, dove non si trovano le vittime e non sono stati indicati i colpevoli, non possono apparire come illegittime. Inizialmente la SEGOB (Segreteria di Governo) si era impegnata a trovare il modo di permettere di visitare le caserme di Iguala e Colula come richiesto, ma di fatto dopo tutto questo tempo i familiari non hanno ancora avuto il via libera a entrare: è per questo che la manifestazione del 12 gennaio di fronte al ventisettesimo battaglione di infanteria di Iguala non poteva avere un approccio diverso da quello di coloro a cui, vedendosi chiudere porte in faccia ogni volta che ha cercato risposte istituzionali, resta solo la strada dell’azione di forza collettiva.
È per questo che genitori e familiari il 12 gennaio erano mescolati con chi a volto coperto provava a sfondare quella barriera di uomini e filo spinato a difesa di quelle mura che rappresentano il braccio armato di uno stato come quello messicano dove comandano repressione e impunità, almeno quando tratta con poveri e indigeni come la maggiorparte degli studenti di Ayotzinapa. È per questo che “l’azione diretta”, prontamente demonizzata dai principali media nazionali, rappresenta l’unica strada di chi ha capito che qui, con questo stato, per chi non è ricco non c’è spazio per il dialogo.
La classe di individui –non importa se sul libro paga dello stato o se fermamente convinti di ciò che vanno scrivendo e dicendo- che parla degli studenti desaparecidos come di facinorosi che se la sono cercata, che ritiene normale che si spari agli studenti (recentemente il governatore dello stato di Guerrero, Rogelio Ortega, ha dichiarato che i manifestanti sono “ingenui” se pensano che non arrivi l’ordine di fermarli sparando se serve), che non pensa che il dolore dei genitori sia causato da un crimine di stato inaccettabile, che dalla propria condizione privilegiata si attacca alla legalità delle azioni e giudica questi familiari perché prendono parte a azioni di questo tipo o non le condannano, c’è sempre stata e sarà sempre abbondante in ogni paese. Vanno invece sottolineate la determinazione e la coerenza di questi familiari, che non sono mai caduti nella trappola mediatica con la sua legalità dogmatica che vuole separare i buoni dai cattivi, e vuole insegnare che si può esprimere l’indignazione, la rabbia e il dolore, compreso quello causato dalla scomparsa di un figlio, solo nei termini ritenuti “accettabili” da quello stesso stato responsabile di questi crimini.
La dignità di questi uomini e donne che non si lasciano comprare o manipolare, non si abbandonano allo sconforto e non si tirano indietro davanti ai militari sta continuando a insegnare tanto al paese e al mondo. Nel Messico di oggi, più militarizzato che mai, stanno rendendo onore ai loro familiari scomparsi ma anche alle migliaia di vittime di tortura, violenza arbitraria e sparizioni forzate per mano di elementi dell’esercito, e allo stesso tempo stanno lottando anche per chi, nella sua agiata inconsapevolezza, dorme sonni tranquilli senza pensare che domani potrebbe essere suo figlio a finire all’interno di quattro mura senza poi uscirne. Almeno fino a che quelle mura non saranno abbattute.